trevi de planu

... recuperare una disattenzione storica, come quella subita dal nostro territorio di pianura...

... L'occhio attento ed amorevole di chi vi abita, come quello del visitatore accorto, saprą allora cogliere...

 

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Il territorio della Valle Umbra č fecondo di emergenze storiche, architettoniche e naturalistiche, molto spesso sconosciute e in troppi casi caratterizzate da un avanzato stato di rovina...

 

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Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi se ne ricordano)

da "Il Piccolo Principe"

di Antoine De Saint-Exupery

 

 

La casa colonica

 

Lo sviluppo degli insediamenti rurali sparsi va di pari passo con il miglioramento delle condizioni di sicurezza nelle campagne, con lo sviluppo dell’appoderamento e, per la zona da noi trattata, con l’estendersi della bonifica. Con la fine del Medioevo vanno via, via cessando le scorrerie delle orde barbariche, prima, e, poi, degli eserciti e bande di mercenari al soldo dei “potenti” del momento. Il significativo miglioramento delle condizioni di sicurezza nella campagna spinge i contadini, costretti per secoli a vivere entro le mura di borghi fortificati, a spostarsi nelle campagne, in quei poderi formatisi con il frazionamento delle grandi proprietą dei signori e delle abbazie. Il podere non appartiene al contadino, questi lo coltiva a mezzadria, dividendo con il padrone, delle terre e della casa, il raccolto, il bestiame da lavoro e quello allevato per essere venduto. Ricordiamo che la pianura trevana fu, fino al secolo scorso, occupata da acquitrini e soggetta a frequenti, rovinose inondazioni, che hanno ostacolato l’insediamento diffuso della popolazione: per questo motivo sono rari i casali antichi. A riprova di ciņ, notiamo la quasi assenza di case rurali provviste di torre palombara, che troviamo, invece, nei casolari del territorio spellano e di quello spoletino, dove “Vediamo in quasi tutti l’accasamenti dei nostri poderi i nostri antenati fabbricati i palombari” . Le torri palombare sono state costruite, infatti, fino alla fine del XVIII secolo, “le palombare nel XIX secolo non si costruiranno pił”. Ricordiamo, in ogni caso – come abbiamo gią citato nel paragrafo sui terremoti che hanno colpito la nostra valle – che gli effetti della sismicitą dell’area hanno in generale contribuito, insieme all’incuria dell’uomo e al trascorrere dei secoli, alla rovina di questa particolare tipologia edilizia.
La casa rurale della pianura trevana ha comunemente forma rettangolare, con il tetto a due falde; solo quelle di pił recente costruzione o ristrutturazione, infatti, hanno forma quadrata e il tetto a padiglione.
L’abitazione vera e propria sovrasta le stalle, la cantina, il ripostiglio, costituendo con queste un corpo unico.
La struttura delle case rurali rispecchiava esattamente quella delle abitazioni dei contadini all’interno dei borghi fortificati, pur avendo maggiori spazi a disposizione. Le ragioni di questa somiglianza possono essere attribuite al fatto che si č continuato a costruire nelle campagne su modelli seguiti da secoli e per questo, forse, diventati gli unici noti. Sicuramente hanno influito anche ragioni di carattere economico: la casa costruita in un solo corpo sottraeva meno terreno alle coltivazioni, faceva risparmiare sui materiali e sui costi di costruzione, necessitando di meno muri e di un solo tetto. Non ultime, al diffondersi di questa tipologia costruttiva hanno contribuito concezioni profondamente radicate nella mentalitą contadina, che esigevano la presenza costante dell’uomo accanto al bestiame, il solo vero capitale del mezzadro, seppure in comproprietą con il padrone del podere. Vivere sopra le stalle, permetteva di percepire i rumori delle bestie, si poteva cosģ proteggerle da furti ed intervenire tempestivamente in occasione di parti o di intemperanze di qualche giovane vitello o giumenta. Dobbiamo, inoltre, ricordare che il lavoro nei campi iniziava la mattina molto presto, con il fresco, quando insetti e calura erano meno fastidiosi per il contadino e per i buoi. Per quell’ora perņ, gli animali che andavano al lavoro dovevano aver gią mangiato e bevuto. Risultava, quindi, molto utile per chi provvedeva “alla governa”, avere la stalla sotto l’abitazione, a volte facilmente raggiungibile direttamente dalla cucina, attraverso una botola. La cura degli animali che restavano nella stalla, veniva, in genere, completata “fra una faccenda e l’altra” dalle donne che restavano in casa per il disbrigo dei lavori domestici.
Ritornando alla struttura della casa rurale, vediamo che al piano terra erano ubicate la cantina e, a volte, anche un ripostiglio, oltre che la stalla per le vacche. Talvolta vi era anche quella dei maiali, se per questi non si disponeva di un apposito annesso – “lu stallittu” – pił o meno distanziato dall’abitazione principale. Le stalle avevano il soffitto basso, le finestre piccole e spesso chiuse, specie in inverno, con fardelli di paglia per riparare gli animali dal freddo. Il pavimento era fatto di ciottoli o di mattoni. Alcune canalette convogliavano i liquami nel letamaio, situato in genere sul retro della casa. Questo era spesso collegato alla stalla con una piccola porta, attraverso la quale si smaltiva quotidianamente il letame prodotto dagli animali. In un angolo era ammonticchiato il fieno o l’erba necessari alla governa del mattino successivo. La stalla non era certo il luogo pił pulito e luminoso della casa, ma, nonostante ciņ, era nel suo tepore che si radunava la famiglia nelle lunghe sere d’inverno, a vegliare, conversando spesso con qualche vicino che veniva a fare visita. Era qui che si raccontavano storie di streghe o di apparizioni misteriose, magari confezionate per il pavido che di lģ a poco avrebbe dovuto far ritorno, solo soletto, alla propria casa. Ad incrementare la paura contribuiva certamente il buio assoluto delle campagne, specialmente nelle notti senza luna. Buio che abbiamo completamente dimenticato, per le tante luci, pubbliche e private, presenti ormai ovunque. Durante le veglie, fra un racconto e l’altro, si disbrigavano piccoli lavori domestici, si aggiustavano attrezzi o si costruivano oggetti d’uso quotidiano, come canestri, cesti, scope, che a volte costituivano merce di scambio per integrare il magro bilancio familiare.
La cantina era il luogo pił fresco del rustico, aveva un proprio ingresso autonomo e non aveva nessun accesso in comune con gli altri locali. Oltre alle botti del vino, vi erano custoditi anche gli attrezzi necessari alla lavorazione delle uve. Nella cantina, o nel ripostiglio, se aveva le giuste caratteristiche, erano, spesso, conservati anche la frutta e i salumi, ottenuti dalla macellazione in casa dei maiali. Nel ripostiglio, poi, trovavano posto piccoli attrezzi, il cordame, a volte il telaio per tessere, il sapone fatto in casa – con i grassi animali ormai troppo rovinati per essere utilizzati in cucina – il catino e la cenere selezionata per fare il bucato. Addossata alla casa, in genere su un lato pił corto, c’era la capanna dove venivano riparati i carri, l’aratro e tutti gli altri attrezzi pił ingombranti.
All’abitazione si accedeva il pił delle volte per una scala esterna, che terminava in una loggia su cui si apriva l’uscio d’ingresso. In fondo alla loggia veniva spesso costruito il grosso forno a legna, indispensabile per la cottura del pane. In alcuni casi, il forno era realizzato sotto le scale o in un annesso fabbricato a ridosso o vicino alla casa. Dall’uscio d’ingresso si accedeva alla cucina, che era il locale pił vasto dell’abitazione. Al suo centro trovava posto il grande tavolo, intorno al quale si radunava la famiglia per mangiare. Addossata alle pareti laterali vi era la madia, per fare la pasta ed il pane; trovava posto la credenza, per riporre i piatti e le stoviglie; era presente l’acquaio – “lu sciacquaturu” – con sopra l’immancabile brocca dell’acqua attinta dal pozzo, per supplire alla mancanza di quella corrente. Murato in un angolo si trovava, a volte, anche il catino per fare il bucato. L’elemento pił caratteristico della cucina era sicuramente il camino. Le sue dimensioni erano notevoli: poteva avere una cappa profonda oltre un metro e superare i due metri di larghezza. Generalmente, era anche rialzato dal pavimento di 20 o 30 centimetri. Al centro del focolare pendeva, nera per la fuliggine ed il fumo, la catena a grossi anelli su cui si appendeva il caldaio, utilizzato per cuocere il cibo o semplicemente per riscaldare l’acqua. I grossi anelli della catena facilitavano, con un apposito gancio, il posizionamento dello stesso a diverse altezze rispetto alla fiamma o alla brace, regolando cosģ la temperatura del suo contenuto. Ai lati del focolare, ma sempre nel suo interno, spesso si costruivano dei fornelli, che venivano alimentati con la brace prodotta dal camino, aggiungendovi a volte un po’ di carbonella. Erano utilizzati per cuocere o riscaldare il cibo, specialmente i legumi che si lasciavano sobbollire lentamente, per ore, nelle “pigne” o nelle pentole di coccio. Laddove non esistevano i fornelli, i lati interni del grosso focolare erano talvolta occupati da panche, sulle quali ci si sedeva per scaldarsi. Queste potevano anche essere incastonate dentro a nicchie in muratura.
Dalla cucina si accedeva direttamente alle camere da letto e al magazzino, luogo in cui il contadino custodiva, al riparo dai roditori, legumi, granaglie e farina.
Intorno alla casa si sviluppava la corte – “li spiazzi”. Questa, in genere, era abbastanza ampia: doveva permettere di manovrare agevolmente con i vari carri (a due o quattro ruote) trainati dalle vacche o dai buoi. Doveva, soprattutto, consentire l’accesso e la conveniente sistemazione della trebbiatrice e di tutti gli altri macchinari ad essa collegati. Nella corte, protetto da una casupola o semplicemente da una tettoia, troviamo il pozzo con la vasca – “lu troccu” – dove era abbeverato il bestiame e l’immancabile grande olmo, apprezzato per la sua fresca ombra e per il foraggio fornito dalle fronde. L’annesso indispensabile e pił caratteristico della casa rurale era l’aia, una superficie quadrata pavimentata con mattoni e protetta da un muretto perimetrale alto dai 20 ai 30 centimetri. La sua utilitą era innegabile, nell’aia, infatti, si mettevano ad essiccare e si “calpestavano” i legumi per separarli dai baccelli, o si ammonticchiavano le pannocchie del granoturco prima e dopo la scartocciatura, in attesa della sgranatura. Qui si costruiva la bica – “lu barcone” – in attesa della trebbiatrice. Nell’aia, infine, nelle sere di tarda estate, s’improvvisavano balli al suono della fisarmonica, di solito al termine della scartocciatura, lavoro a cui partecipavano amici e vicini.
Intorno all’aia, a qualche decina di metri, venivano costruiti i pagliai, cumuli di fieno o paglia eretti intorno ad un palo centrale di sostegno – “lu mallone”. Erano a forma cilindro-conica. Alla loro base spesso si mettevano dei grossi rami in modo che il fieno o la paglia, rimanendo sollevati da terra alcune decine di centimetri, non assorbivano l’umiditą del suolo. Si ricavavano, cosģ, anche dei ricoveri per gli animali da cortile (ad es. conigli) o per i cani. Di solito, per la paglia si costruiva un solo pagliaio che, per questa ragione, raggiungeva spesso dimensioni notevoli, superando alla base anche i dieci metri di diametro. Per il fieno, invece, se ne realizzava uno per ogni fienagione, per cui se ne potevano avere due o tre, di dimensione variabile a seconda dell’andamento stagionale. Durante l’anno la paglia o il fieno venivano prelevati tagliando, dall’alto verso il basso, delle falde con una falce triangolare, simile ad una vanga – “la tajafieno”. Nei pagliai di fieno, questo tipo di taglio metteva in evidenza le diverse sfumature di colore, dovute all’alternarsi delle specie di erba utilizzate: si poteva cosģ riconoscere l’erba medica, la lupinella, il trifoglio o quel miscuglio infinito di erbe provenienti dallo sfalcio delle ripe dei fossi. La “tajafieno” era spesso costruita in casa, recupererando la lama di una vecchia “fargiafenara”.
In qualche casolare troviamo un altro annesso: la buca della polpa. Era, in genere, di forma quadrata, di 3-4 metri di lato e profonda 1-1,5 metri. Veniva utilizzata per conservare la polpa fresca, ottenuta come sottoprodotto dalla lavorazione delle barbabietole da zucchero.
L’approvvigionamento avveniva presso lo zuccherificio di Foligno dove, peraltro, si conferivano le stesse barbabietole. La polpa veniva stivata a strati alternati con le giovani piante di granturco da foraggio – “lu granturchittu” – opportunamente triturato con il trinciaforaggi, e con le foglie tolte dalle barbabietole prima del loro conferimento allo zuccherificio. Il tutto, nei mesi invernali, costituiva per il bestiame una valida ed energetica integrazione al foraggio. La polpa, a volte, era conservata semplicemente in grossi cumuli, in un angolo della corte.


La tipologia della casa colonica č rimasta pressoché invariata per secoli. Ha sicuramente caratterizzato l’intera durata dell’istituto della mezzadria, che č stato soppresso giuridicamente nella seconda metą del ventesimo secolo. Soltanto negli ultimi anni di sopravvivenza di quest’istituto, la casa colonica č stata arricchita con i servizi igienici che hanno sostituito la vecchia latrina esterna alla casa, posizionata, in genere, vicino alla concimaia. In rari casi, infine, negli “spiazzi” č stato costruito un altro annesso: il fienile.

 

 

 

 

Casa colonica

 

 

Immagine di S. Antonio Abate posta a protezione della stalla