trevi de planu

... recuperare una disattenzione storica, come quella subita dal nostro territorio di pianura...

... L'occhio attento ed amorevole di chi vi abita, come quello del visitatore accorto, saprà allora cogliere...

 

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Il territorio della Valle Umbra è fecondo di emergenze storiche, architettoniche e naturalistiche, molto spesso sconosciute e in troppi casi caratterizzate da un avanzato stato di rovina...

 

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Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi se ne ricordano)

da "Il Piccolo Principe"

di Antoine De Saint-Exupery

 

 

La bonifica della pianura trevana

 

Gli artefici iniziali della lunga e faticosa lotta per la bonifica dei terreni palustri della Valle Umbra furono probabilmente gli Etruschi che incisero, forse per primi, la soglia di Torgiano, opera necessaria per far defluire le acque della valle folignate-spoletina verso il Tevere.
In questo periodo, nell’area umbra meridionale doveva essere presente un bacino lacustre piuttosto ampio, noto con il nome di lacus Umber. Questo bacino si estendeva all’incirca dalla zona di Campello  fino al corso dell’attuale Tevere, oltre Assisi. Più di uno studio ha tentato in passato di definire l’altezza del lago prima dell’intervento narrato. La quota più probabile che ne è risultata è di m 219 s.l.m. Così, se prendiamo una carta topografica, o comunque quotata, ci accorgiamo che il vecchio specchio lacustre poteva lambire il colle di Trevi e praticamente sommergere alcune delle nostre frazioni, quali Parrano e San Lorenzo.
In epoca romana, l’antico lacus Umber aveva lasciato il posto a due corpi idrici distinti: nella nostra area, doveva ancora permanere il lacus Clitorius, mentre a settentrione, ad occupare la valle di Assisi, era presente un secondo lago, ancora denominato lacus Umber o lago di Assisi. Questi due bacini erano separati dal conoide del fiume Topino.
Se andiamo a leggere la voce “Bonifiche” in “L’Umbria si racconta” troviamo la notizia che i “due laghi erano uniti da una fascia d’acqua sulla direttrice Bevagna-Cannara-Bettona”. Ed ancora che “dal Clitunno si poteva raggiungere Roma con imbarcazioni (Caligola lo fece nel 40 d.C.)”.
Alla fine del V secolo il lacus Umber doveva essere ridotto a stagni e paludi, tra le quali affiorava la terra emersa (citiamo, come esempio, Insula Romana, l’attuale Bastia).

Non tutti gli autori (De Albentiis) concordano con la presenza di un vero e proprio bacino lacustre nella valle folignate-spoletina.
Il lacus Clitorius, nella realtà, fu più probabilmente un insieme di ambienti palustri e fluviali diversi, vari e discontinui, ubicati a meridione della linea Bevagna-Foligno, e costituito dalle acque dei sistemi idrici Marroggia, Clitunno e Teverone.
Queste paludi furono oggetto dell’opera di bonifica dei Romani. A favore di tale ipotesi ricordiamo l’aumento della popolazione nelle aree vallive, la costruzione della via Flaminia, la ricchezza dell’agricoltura a Mevania, l'odierna Bevagna, e la presenza, citata da Plinio il Giovane, di belle ville di campagna lungo il fiume Clitunno. Tutti elementi che fanno ritenere che l’aria dovesse essere abbastanza salubre e non infestata dalla malaria, malattia tipica delle regioni con forte impaludamento. Non abbiamo, tuttavia, dati certi che attestino le modalità e i tempi dell’opera di bonifica operata in questo periodo.
Da notizie storiche sappiamo che, alla fine del V secolo, Teodorico, re dei Goti – che già aveva avviato la bonifica delle paludi nel ravennate – ordinò a due abitanti di Spoleto di provvedere alla bonifica di alcune aree paludose presenti nelle campagne amministrate da quella città: opere che rintracciamo in località Madonna di Lugo, sotto il colle di San Tommaso, a Spoleto. Allo stesso periodo si fa risalire anche il prosciugamento delle campagne intorno a Cannaiola e a Beroide. Anticipiamo, tuttavia, che il territorio di Cannaiola rimase a lungo malsano: nel 1854 l’Ospedale di Trevi riceveva dei lasciti per curare senza compenso gli abitanti di questo paese che soffrivano gravemente per l’aria insalubre.
Torniamo alla nostra cronistoria. L’invasione dei Longobardi determinò, qui come altrove, la fine degli interventi di bonifica e la natura paludosa riprese il sopravvento su quanto già realizzato.
Durante l’Alto Medio Evo varie abbazie si fecero promotrici di opere di sistemazione idraulica della valle, tuttavia, e i toponimi dei luoghi ce lo confermano, le paludi continuarono ad esistere ancora a lungo e l’aria malsana continuò ad infestare, in parte, le nostre pianure. Citiamo, come esempio, che negli Atti dell’Abbazia di Sassovivo del 1204 viene ricordata la palude di Trevi.
Annotiamo alcuni nomi locali, la cui origine si perde nella storia, che richiamano alla memoria un ambiente ricco di acque. Le Canapine, luogo per fare macerare la canapa, e Cannaiola (da canne, terra di cannucce, posto dove queste piante crescevano in abbondanza, o forse anche da canale, canaiola, canaviola, probabilmente, in quanto zona di bonifica). Nell’abitato di Cannaiola, ricordiamo la presenza di un fosso, oggi cementato, utilizzato in passato per la macerazione della canapa, la coltivazione della quale era molto diffusa in tutte le campagne, così copiose di acqua, della Valle Umbra meridionale.

La presenza di canapaie, così come di molini e di orti, induceva alcuni comuni a non agire con troppa solerzia nel ripulire ed arginare i propri fossi, con lo scopo di  favorire quelle attività particolarmente importanti per l'economia locale.
Nel XIV secolo fu deviato il corso del Tatarena, portato dalla direttrice dell’attuale via principale di Cannaiola, circa al luogo ove scorre anch’oggi. Come potremo conoscere meglio nel paragrafo dedicato a questo nucleo, per il libero divagare del Fiumicello dei Prati, oggi cementato, si decise di spostare Cannaiola dal luogo originario, che secondo la tradizione si trovava proprio nei pressi del Fiumicello, lungo la direttrice definita dal vecchio alveo del Tatarena.
Con riferimento a questo, come ad altri paesi della valle, possiamo poi osservare che la presenza della palude se da un lato ne proteggeva l’abitato, dall’altro non garantiva certamente una sufficiente estensione di terre adatte all’agricoltura, in grado di assicurare il sostentamento alla popolazione rurale che in quel periodo storico ed economico poteva derivare solo dalla pratica agricola. Anche per questo vi era sicuramente la necessità di provvedere ad opere che consentissero una maggiore disponibilità di suoli agronomicamente validi. L’ambiente palustre era utilizzato dal popolo in uso collettivo per pescare, cacciare o pascolare le pecore, o dal signorotto per gli stessi motivi ma come riserva personale.
Tornando ai toponimi locali, possiamo, anche, ricordare C. Padule, Fosso Padule, Podere Pantano, tutti compresi tra Borgo Trevi e il torrente Tatarena, che ci indicano l’esistenza di ambienti acquitrinosi. Se andiamo bene a cercare, scopriamo che alcuni piccoli stagni sono ancora oggi presenti nel nostro territorio comunale. In particolare ne ricordiamo il più esteso, ubicato ad oriente dell’abitato di Cannaiola, quasi a ridosso del fosso Fiumicello dei Prati, tra il Casaletto, a nord, e il Podere la Cuccia, a sud, ad una quota di circa m 216 s.l.m.
Riprendendo la nostra storia, annotiamo, dunque, che le città umbre avevano l’assoluta esigenza di bonificare le loro pianure, per garantire un minimo di sostentamento agli abitanti del piano in continua crescita demografica. Pur nel totale individualismo che caratterizzava i comuni dell’Umbria, negli Statuti di Foligno leggiamo che nel 1292 furono realizzati importanti lavori di regolazione idraulica con la costruzione di un canale che partendo da Fonte Palomba, proseguiva quasi al confine con Montefalco (attraverso il territorio denominato Rossitolo, oggi conosciuto come Torre di Montefalco), per giungere al Timia e forse tornare al luogo di partenza, una specie di fossato che circondava l’area da bonificare. Di questo canale, tuttavia, non troviamo ulteriore traccia nei documenti storici.
Negli Statuti di Trevi, circa 120 anni più tardi, troviamo scritto che era fatto obbligo a tutti gli abitanti, proprietari dei terreni siti oltre la strada che rasenta le montagne, di scavare dei fossi per garantire un rapido drenaggio delle acque. Negli statuti successivi di tutti i comuni che insistono parzialmente o totalmente nel territorio vallivo, troviamo anche indicazioni sulla necessità di manutentare le opere idrauliche già realizzate, al fine di assicurare nel tempo un buon deflusso idrico. Tuttavia, come già accennato, il grande spirito di indipendenza locale, la poca disponibilità ad una qualsiasi forma di cooperazione, le guerre continue, fecero sì che ogni opera fosse finalizzata esclusivamente, o quasi, a prosciugare ambiti più o meno ampli del proprio territorio municipale, ignorando eventuali incompatibilità con le situazioni contermini, con il risultato finale di un nulla di fatto complessivo e la permanenza di tutte le problematiche di alluvionamento e impaludamento della pianura.
Per inquadrare il periodo delle grandi opere di bonifica da un punto di vista climatologico, ricordiamo che in quell’intervallo di tempo nella nostra regione si sono avuti due evidenti peggioramenti climatici, uno verificatosi tra il 1200 e il 1350 circa e il successivo tra la fine del XVI e la metà del XIX secolo (piccola età glaciale), con massimo freddo nel XVIII secolo. È evidente che queste variazioni climatiche debbono avere influito sugli afflussi meteorici e in definitiva sulla dinamica delle acque superficiali e sotterranee.
Per comprendere a fondo le questioni legate alla bonifica, è anche importante sottolineare che fino al XVI secolo i concetti di idraulica erano certamente molto dissimili da quelli moderni. Si aveva, infatti, una visione molto limitata degli ambiti territoriali, causata anche dalle difficoltà negli spostamenti, e questo rendeva problematico immaginare e comprendere le grandi estensioni che può raggiungere un bacino idrografico. Era, quindi, difficile interpretare i fiumi come originati dalle piogge. Secondo alcuni la terra era cava, con l’acqua del mare che sobbolliva in profonde caverne, da cui, poi, usciva desalinizzata per dare luogo alle dolci acque sorgive. Qualche altro riteneva che fiumi e torrenti avessero un’origine completamente differente, così che ogni cartografo li distingueva nettamente, con colori diversi. Il fiume portava acqua pura (come il Clitunno), il torrente acqua torbida (piena di terra e sassi, come il Tatarena).
Agli inizi del 1400, estese zone del nostro comune erano ancora paludose e se vi sono testimonianze in cronache del tempo di opere di bonifica, è certo che i lavori intrapresi furono poco importanti o di breve vita. In altri documenti di fine secolo, infatti, si continua ad evidenziare la presenza di ampie zone palustri, con i tanti problemi connessi.
Nella “Historia … di Trevi”, leggiamo che il piano era diviso in piccoli settori, per tutte le fosse (comunali) che dovevano essere scavate, di comune accordo dai confinanti, per assicurare la regimazione idraulica dei campi. Il materiale di risulta andava posto sopra agli argini dei torrenti principali più vicini, per rinforzarli e salvaguardare le campagne dalle alluvioni. Nella sua opera, Durastante Natalucci ci ricorda che tutto il territorio tra Fabbri, Case Paduli, la chiesa di Santa Maria Pietrarossa, sino al confine con Foligno era paludoso ed incolto, con aria cattiva ed insalubre, perché i fiumi e i torrenti che l’attraversavano vi scorrevano liberi senza alveo proprio. Nell’anno 1450 il comune di Trevi decise che era necessario intervenire con la bonifica del piano e che a tal fine risultava indispensabile trovare un accordo con i comuni confinanti, tanto che furono nominati sei deputati per trattare con la città di Foligno le opere di disseccamento delle paludi. Vi era l’esigenza di definire un patto con questo comune per addivenire, in breve, alle necessarie opere di sistemazione idraulica “per l’acqua della Timia, della Sportélla, della Marroggia, della Fiumicella, di Tatarena e del Ruicciano e si ordinasse per lo stesso effetto lo scavo de medesimi torrenti… ”.
È infatti evidente che la bonifica della pianura trevana poteva essere realizzata solo a condizione che anche Foligno e Montefalco, municipi confinanti con il nostro, intervenissero nel proprio territorio.
Ad aggravare le difficoltà della zona vi erano, inoltre, i problemi idraulici del territorio spoletino, causati soprattutto dalle frequenti e disastrose alluvioni dei torrenti Marroggia e Tessino. Tra tutte, citiamo quella verificatasi nel settembre del 1493, che produsse danni gravissimi, con conseguenze molto pesanti per tutta l’agricoltura della valle, non solo a Spoleto ma anche a Foligno, Bevagna e Cannara. Per questo motivo il 1494 fu impegnato per canalizzare il torrente Marroggia, che aveva così paurosamente debordato dal suo alveo.
Nei decenni seguenti si moltiplicarono le imposizioni ai fondisti affinché procedessero alle necessarie regole di regimazione idraulica, tuttavia, anche ammettendo che ciascuno rispettasse la legge, i risultati furono parziali anche perché, al solito, ciascuno limitava il proprio intervento al solo, ristretto ambito di competenza.
Nel 1552 papa Giulio III concesse in enfiteusi le terre da bonificare al Tesoriere della Camera Apostolica di Perugia. Foligno e Trevi si trovarono in netto disaccordo con la decisione di Roma, così alla morte del Pontefice, approfittando della vacanza del seggio papale, invasero quelle aree e costrinsero alla fuga il commissario pontificio, Paolo Odescalchi, deputato alla bonifica della valle. In seguito, la controversia sul possesso delle terre fu risolta a favore dei due municipi umbri, dietro pagamento da parte degli stessi di una somma in denaro e il rimborso delle spese sostenute.
Nel 1562 le terre di palude furono divise tra le famiglie dei villaggi della piana, della collina e della città – ricordiamo che tutti erano stati chiamati nel tempo a partecipare alle opere di sistemazione della valle – attribuendone circa 1500 mq a famiglia e proibendone la vendita ai non residenti nel comune.
Il periodo compreso tra il 1563 e il 1566 fu determinante per la bonifica del territorio, grazie all’opera dell’ingegnere idraulico Francesco Jacobilli, di antica e nobile famiglia folignate. Questi, nonostante i divieti di vendita esistenti, anche grazie alle tante conoscenze che aveva a Roma – dove era conosciuto come uomo influentissimo – ottenne di poter bonificare i terreni paludosi in proprio. Comprò, pertanto, ampie estensioni acquitrinose nei comuni di Foligno, Trevi, Montefalco e con la collaborazione di tecnici illustri, sostenendo spese notevoli, riportò a coltura, come si legge nelle cronache antiche, circa 14.000 staia di terreno nel folignate e circa altrettanti nei restanti due territori interessati, per complessivi 1.500 ettari circa, compresi tra la via Flaminia, a nord, il torrente Teverone, a sud-ovest, giungendo sino a Pietra Rossa, a est. Durante questa importante opera di bonifica – lo ricordiamo per curiosità – Francesco Jacobilli costruì sulle sue terre un bel palazzo ed un caseggiato, fondando, così, il nucleo primitivo del piccolo villaggio e dell’azienda agraria di Case Vecchie, nel comune di Foligno. Nelle cronache di Ludovico Jacobilli così si legge: “… il detto Francesco ridusse a più totale perfectione questi paludi l’anno 1566”.
Continuando a cercare nella storia locale notizie sulla bonifica trevana, troviamo che in un breve di Gregorio XIII del 1575 si obbligava lo scavo di canali di drenaggio. Tredici anni dopo fu la volta del governatore di Perugia a richiamare le amministrazioni confinanti di Trevi, Foligno e Montefalco, ai propri doveri di manutenzione degli argini e dei corsi d’acqua di loro competenza.
La storia continua, dunque, con ordini impartiti dai “governi centrali” e di solito elusi da quelli locali, certamente per indomito spirito d’indipendenza ma anche per la difficoltà a comprendere l’importanza di affrontare comunitariamente, in una sorta di disciplina collettiva, i problemi comuni.
Rimanendo sempre nella seconda metà del XVI secolo, ricordiamo la figura dell’ingegnere Cipriano Piccolpasso che, su mandato del governatore di Perugia, ispezionò tutti i canali della valle, annotando la necessità di ripulirli e ordinando di procedere con lavori che dovevano essere a carico non solo dei comuni direttamente coinvolti, ma anche di tutti quelli confinanti, che comunque avrebbero ricevuto dei benefici dalle opere di risanamento. Al solito, non tutti i comuni risposero positivamente: Trevi, in particolare, sostenne di essere troppo lontana dalle aree effettivamente oggetto dei lavori e Spello non si ritenne interessata, perché non soggetta alla giurisdizione del citato governatore.
Altro esempio dell’opportunismo locale ci viene offerto dai resoconti del visitatore apostolico Malvasia. Questi visitò i comuni della nostra valle alla fine del 1500, ascoltandone le lagnanze con il fine di assumere le determinazioni conseguenti. Quando fu la volta di Trevi, leggiamo che il nostro municipio lanciò pesanti accuse contro Montefalco, imputata di non ripulire i canali di propria competenza ed anzi di avervi alzato uno sbarramento, causa di gravi problemi di alluvionamento nel territorio trevano. Quando toccò a Montefalco, il visitatore apostolico ascoltò le stesse rimostranze, ovviamente, rivolte per l’occasione contro Trevi.
Nel 1588 papa Sisto V, per trovare una soluzione ai vari problemi di risanamento delle campagne nello Stato Pontificio (di cui la nostra valle faceva parte), istituì la Sacra Congregazione delle Acque, una specie di ministero deputato al controllo e alla gestione amministrativa in materia di acque e strade, che continuò ad operare fino alla caduta dello stato medesimo. Tale Congregazione si componeva di un collegio di sei cardinali, presieduto da un Cardinale Prefetto. Il Presidente era un Chierico di Camera, che svolgeva le sue funzioni con l’aiuto di un Segretario e di vari funzionari. Il Prefetto, con il Segretario, poteva nominare localmente un Delegato che svolgeva i compiti amministrativi presso la provincia di cui era incaricato. Nella nostra, il delegato Apostolico era scelto, solitamente, nella persona del Governatore di Perugia o di Spoleto, che, nel caso specifico, rivestiva anche la carica di Soprintendente delle Acque.
Ma torniamo alla nostra cronaca. Annotiamo, così, che nel 1529, per la rottura dell’argine della Polzella, il territorio a valle di Montefalco fu completamente allagato. Grazie all’intervento del Cardinale De Cuppis, originario di questo paese, si riuscì a bonificare l’area, realizzando il canale di drenaggio denominato torrente Teverone. Nel 1594, papa Clemente VIII ordinò di approfondire ed arginare i principali torrenti della pianura. Nel 1619 furono stipulati i necessari accordi tra Spoleto, Trevi, Montefalco, Foligno e Bevagna. I lavori complessivi dovevano durare non più di un anno e a seguito di questi il torrente Marroggia doveva avere, nel nostro territorio, un argine alto 1,35 metri e largo m 2,90. Anche questi lavori si rivelarono ben presto inadeguati, tanto che nel 1626 altri ingegneri erano di nuovo all’opera per trovare altre soluzioni alle problematiche idrauliche della valle folignate-spoletina.
Nel frattempo le inondazioni non erano certo mancate e i corsi d’acqua non avevano avuto alcun rispetto dei tentativi di accordo che si cercava di portare avanti e che maturarono solo successivamente.
Nella “Historia … di Trevi” del Natalucci, leggiamo: “… giusta al dire del Vitellozzi – Milleseicentotredici, o lettore, nel giorno di S. Orsola beata, con rovina, fracasso e rumore, venne una pioggia grande, smisurata, che nelle valli e luoghi assai di fuore, ha tutta la campagna dissipata. Dopo il diluvio, mai caso si strano non si ricorda nel sito trevano…”. Per correttezza d’informazione, ricordiamo che l’anno successivo il disastro toccò alle pianure di Campello.
È giusto annotare che in tutti questi lunghi anni il naturale defluire delle acque fu anche ostacolato da ogni sorta di derivazione e sbarramento, per gli usi molitori e per quelli irrigui. L’interramento dei vecchi alvei determinò, inevitabilmente, naturali deviazioni di corso. Inalveare e arginare i torrenti non fu certo la soluzione definitiva dei problemi, perché la ricchezza di alluvioni che vi si depositava faceva innalzare i letti dei torrenti, che divennero sempre più pensili sulle basse pianure circostanti.
Dagli Atti della Sacra Congregazione delle Acque possiamo conoscere la storia dei lavori di sistemazione della valle a partire dalla fine del XVI secolo. Scorrendo quei vecchi documenti veniamo a sapere che nel 1700 la pianura non era completamente bonificata e che, in conseguenza, continuavano ad essere più redditizi i terreni di collina e di montagna.
Nel caso del comune di Trevi, ad esempio, l’area valliva rappresentava circa un terzo dell’intero territorio ed era costantemente minacciata dalle frequenti esondazioni dei tanti fossi e torrenti che la percorrevano, il Marroggia su tutti, “… grande sopra tutti gli altri del piano, si per l’altezza delle sue ripe che per la grande copia delle acque conduce in congiuntura di pioggia, talmente forse chiamato dalla quantità delle istesse. Mentre nel tempo le porta, alle volte impetuosamente, inondando o rompendo gli argini, fa apparire in questo oggi la vicina pianura allagata come un tratto di mare … Originando, con detto nome al Ponte di Bari nel’agro di Spoleto, con le acque del Tessino ed altri torrenti che in esso si introducono … passa l’agro di Trevi sempre per retta linea, con l’argini assai forti ed aggiustati ed il letto sopra alla terra ferma fin sotto la Via Nova, ove incomincia a correre egualmente e sotterraneo ancora fino ad imboccare nella Fiumicella, per distanza di canne 2148 romane, dal Ponte Canale fino al Ponte della Via Nova…”.
Le acque dei vari corsi rompevano frequentemente gli argini ed invadevano i campi, con danni talora irrimediabili per l’agricoltura della zona, specie laddove arrivavano a depositarsi i materiali alluvionali più grossolani, che inevitabilmente inaridivano i terreni. I fossi, a seguito di un’inondazione, si trovavano spesso colmati dai propri sedimenti e quindi, se non ripuliti con puntualità e a regola d’arte, non erano più in grado di smaltire le piene successive, determinando ulteriori problemi alle campagne. Quando un argine si rompeva, prendeva avvio una serie lunga e complessa di atti, per le autorizzazioni necessarie per realizzare gli interventi, per effettuare le perizie, per definire a chi spettasse sopportare il peso dei lavori di ripristino, per imporre le tasse che avrebbero consentito di affrontare i costi conseguenti e così via. Il tempo passava e i problemi si moltiplicavano, perché con il susseguirsi delle piene, le brecce degli argini, non riparate, non potevano che allargarsi e favorire ulteriori allagamenti. Per capire la drammaticità della situazione relativa alla gestione delle acque citiamo come esempio che, nei nove anni compresi tra il 1742 e il 1751, il Marroggia ruppe i propri “argini trevani” ben 17 volte. Ciò nonostante, in alcune cronache dell’epoca leggiamo che, nel 1752, la gente di Trevi cacciò alcuni operai incaricati di riparare degli argini, perché il danno che ne avrebbe potuto conseguire alla piena successiva avrebbe interessato solo il territorio folignate, mentre i costi, come sappiamo, andavano ripartiti tra tutti i comuni e, soprattutto, tra tutta la popolazione residente.
Nel 1706 il Cardinale Francesco Barberini emanò direttamente, senza passare per il Delegato apostolico locale, un editto con il quale ordinò di tagliare gli alberi, le viti e tutta la vegetazione che cresceva sugli argini dei fiumi e dei torrenti in tutta la Valle Umbra, in quanto pericolosi per la stabilità delle ripe. Fece, altresì, obbligo di chiudere immediatamente tutti i canali realizzati per adacquare i campi (i così detti acquaioli) che intersecavano gli argini, indebolendoli.
La Sacra Congregazione delle Acque vietò, a più riprese, anche il pascolo e la transumanza del bestiame sulle sponde di fossi, fiumi e torrenti. Divieto quasi sempre ignorato dagli interessati, in quanto i pastori, esattamente come i contadini, ritenevano che gli argini dovessero essere soggetti agli usi civici come tutti i terreni pubblici.
Leggendo i documenti dell’epoca veniamo a sapere che gli abitanti di Trevi continuarono ad ignorare tutti gli ordini di sistemazione impartiti dalla Sacra Congregazione delle Acque. Spoleto era poco sollecita a riparare i suoi argini, perché i danni conseguenti si sarebbero risentiti soprattutto nei territori confinanti a valle, cioè in quelli di Trevi e di Montefalco. Bevagna, per salvaguardare l’attività del suo molino, ostacolava le opere di drenaggio della valle. Azzano, in comune di Spoleto, arginava il Marroggia a regola d’arte solo dalla sua parte mentre non rinforzava adeguatamente l’argine opposto, così da creare, in caso di forti piogge, una via di esondazione preferenziale al di fuori del suo territorio.
Nel 1696 lo Sforzini e nel 1755 il Facci proposero una nuova soluzione alle rotte perniciose del Marroggia, che fu poi realizzata. Non potendo allargare o innalzare ulteriormente gli argini del Marroggia, per il grande onere che questo intervento avrebbe comportato, decisero di razionalizzare la tracimazione delle acque, facendole confluire, quando superavano un certo livello “di guardia”, attraverso appositi “versatoi di muro” o “sfioratoi”. Lo scopo era evitare la distruzione dell’argine e ottenere una maggiore “tranquillità” nell’uscita delle acque in piena. Il risultato finale fu, invece, un ulteriore interramento dell’alveo e, insieme ad altre cause di fondo, l’alluvione del 1801 che lasciò la valle spoletina allagata per circa vent’anni. Ricordiamo che la disastrosa rotta avvenne in località San Lorenzo. In conseguenza di questa, l’argine sinistro del Marroggia venne aperto per consentire alle acque di riprendere il vecchio corso e il torrente si creò così un nuovo alveo.
Il risultato è che nel 1800 la malaria faceva registrare nella nostra valle ancora molte vittime e nel 1882 la valle spoletina veniva citata nei resoconti dell’epoca come zona di malaria leggera.
A partire dal 1700 e nel 1800, definite le più importanti regole del drenaggio delle acque, si prese coscienza del fatto che ogni punto di un bacino ha la sua importanza nel determinare l’equilibrio del corso d’acqua e che, almeno da un punto di vista idraulico, la valle folignate-spoletina doveva essere amministrata nella sua complessità come un’entità unica, come l’insieme idrografico Topino-Marroggia. Pur tuttavia, se Foligno riuscì a riunire nella sua Prefettura delle Acque i comuni di Assisi, Spello, Bevagna, Montefalco, Bettona, Bastia e Valtopina, non riuscì nell’intento finale di comporre tutti i territori di valle, in quanto Spoleto (1754) e Trevi (1760) ebbero una propria, distinta Prefettura.
L’esigenza di istituire localmente le Prefetture delle Acque nacque per garantire una maggiore tempestività d’intervento in zona, rispetto a quanto assicurabile con l’organizzazione della Sacra Congregazione delle Acque. È evidente, tuttavia, che la nascita di diverse realtà locali non contribuì a perseguire la visione d’insieme delle problematiche idrauliche, quella visione che fu più volte evidenziata come fondamentale per la risoluzione dei tanti problemi esistenti.
Nella “Storia di Trevi” leggiamo che la Prefettura delle Acque di Trevi, dipendente dalla Delegazione di Spoleto, era composta da otto deputati: due ecclesiastici, tre gentiluomini e tre contadini dei terreni aggiacenti. Con decreto prefettizio del 20 aprile 1879, verrà denominata Consorzio delle Acque in Trevi. Questo ebbe il compito di assicurare la manutenzione alla Fossa Grande e Marcuccina, alla Fossa Ciccotto, all’Alveo, al Fiumicello e all’Alviolo di San Lorenzo, alla Fossa dei Prati, alla Roveta e Viola, alla Fiumicella e Maroggiale, alla Fossarenosa, al Cocugno e Fossariccia, all’Alviolo di Parrano, all’Alviolo di Pigge e Bovara, alla Maroggiola e alla sua diramazione detta Fiume Nuovo. Facevano parte del Consorzio tutti i proprietari dei terreni in aggiacenza con i detti corsi d’acqua e che traevano vantaggio dalla loro manutenzione.
Nella realtà dei fatti, la Prefettura di Trevi, come le altre, ebbe un peso ridotto nella bonifica della pianura. Nel 1816 il nostro territorio veniva descritto come il più disastrato della valle, per il divagare libero del Marroggia da circa un ventennio, cioè dalla rotta del 1801. La Prefettura, incapace di risolvere i grandi problemi del territorio di pianura, risolveva la sua attività nella cura dei terreni dei deputati, trascurando quelli degli altri. Per un periodo venne anche ignorata la buona regola di assicurare il cambio dei deputati ad ogni biennio. Solo con l’avvento del marchese Martinez, che assunse a sua volta tale carica e fu fortemente critico con la gestione corrente della Prefettura, gli avvicendamenti si susseguirono con maggiore frequenza. Furono, infine, oggetto di verifica anche i bilanci, con risultanze tutt’altro che confortanti.
Nel 1802, successivamente alla rotta del torrente Marroggia, la Prefettura di Spoleto venne esautorata dai suoi compiti e sostituita da una diversa magistratura delle acque, nata per l’occasione e denominata Congregazione particolare dei signori trevani e spoletini, nota anche come Deputazione speciale sul Marroggia: organismo che può, forse, essere considerato l’embrione del futuro Consorzio della Bonificazione Umbra. Venticinque anni più tardi, a Spoleto, questa Deputazione svolgeva compiti di superprefettura delle acque, con l’incarico di esaminare pareri e indicazioni delle prefetture e dei deputati locali. Fu presto chiarito, tuttavia, che la Congregazione particolare doveva dipendere direttamente dalla Sacra Congregazione delle Acque a cui rimaneva, pertanto, il compito di amministrare le acque nella Valle Umbra, ove il Papa si era evidentemente riservato ampia facoltà di intervento.
Alla fine del XVIII secolo il Conte Camillo Valenti bonificò nella valle trevana una proprietà paludosa ed incolta con il metodo della colmata, già largamente usato in Toscana. In pratica, grazie al fatto che questa proprietà era a livello più basso dei terreni circostanti e del torrente Alveo, che spesso in inverno l’alluvionava, alzò degli argini ai confini dei suoi terreni. Quindi, con uno sbarramento di definita altezza, limitò l’Alveo nella sua proprietà e, modulandone le piene e gli alluvionamenti, riempì e rialzò il proprio terreno. Con un secondo piccolo sbarramento lungo il così detto Fiumicello dei Prati fece, infine, defluire le acque, opportunamente decantate, al di fuori della sua proprietà. Questo metodo, tuttavia, non era applicabile su larga scala alla bonifica delle nostre valli, già densamente abitate. Poteva, inoltre, causare l’isterilimento dei terreni, per la ricchezza delle alluvioni grossolane, trasportate da fossi e torrenti, che vi si andavano a depositare.
Nel 1828 papa Leone XII, della famiglia Della Genga, nativo di Fabriano ma vissuto alcuni anni nello spoletino, diede il via alla moderna bonifica della Valle Umbra, secondo il progetto elaborato dallo Scaccia e dal Folchi. La direzione di questa grande opera, per la quale occorsero oltre dieci anni, fu affidata alla Sacra Congregazione delle Acque. Il progetto prevedeva in prima istanza di rendere inoffensivo il torrente Tessino, ritenuto uno dei principali problemi idraulici del bacino del torrente Marroggia. Per consentire il deposito delle alluvioni trasportate da quel corso d’acqua, venne realizzato un bacino di scarico allo sbocco del Tessino in pianura, prima della confluenza dello stesso nel Marroggia. Il piano di bonifica prevedeva, inoltre, la sistemazione dell’intero corso del Marroggia con l’allargamento dell’alveo, mediante l’incremento della distanza degli argini all’uopo realizzati, e con il taglio di quelli vecchi, per permettere al corso di defluire entro i nuovi confini. In tal modo si consentiva una maggiore portata di massima piena ma anche, in definitiva, di allungarne il corso, aumentando con delle curve il tragitto delle acque. Più a valle, invece, ove era minore l’esigenza di modificarne il tracciato, gli argini furono ristretti e così il torrente corre quasi rettilineo per diversi chilometri, sino a Casco dell’Acqua. Venne, poi, allargato il Teverone e furono sistemati il Tatarena, il Ruicciano e il fosso Cocugno. Infine, si decise di spostare più a valle le immissioni degli affluenti nelle aste principali di tutto il sistema Topino-Marroggia. Si inalvearono i torrenti secondari in sinistra idrografica e si sistemarono i fossi di scolo in destra. Nel 1828 la Sacra Congregazione delle Acque decise di dividere così gli oneri di attuazione: 42.000 scudi, in 14 anni, tra i proprietari della campagna; 10.500, in 9 anni, tra quelli dei terreni collinari confinanti; 29.700 a carico della Delegazione di Spoleto; 37.800 a carico di quella di Perugia, con un anticipo di 30.000 scudi da parte della Camera, che li avrebbe poi recuperati con le ultime rateizzazioni, come sopra meglio definite.
Seguirono altri progetti ed interventi e quasi alla fine del secolo, per sovrintendere alle opere di regimazione idraulica della valle, fu istituito il Consorzio della Bonificazione Umbra.
Per dovere di cronaca, ricordiamo che molti anni prima della bonifica descritta, un certo, misconosciuto, ingegnere Astolfi aveva suggerito che solo i fiumi potevano essere gli artefici della propria storia e che ogni rotta indicava una naturale necessità di modificare il proprio corso, ad esempio per allungarlo e trovare così sfogo ad un’aumentata energia. Pertanto, l’unica soluzione, seppure costosa, era di ampliare complessivamente l’alveo del torrente Marroggia, compresa la realizzazione di una cassa di espansione che avrebbe consentito anche il deposito delle alluvioni trasportate. In tal modo il torrente avrebbe avuto un ampio spazio ove divagare e in conseguenza sarebbe risultato poco o affatto pericoloso per le campagne in cui scorreva.
Oggi, se guardiamo la nostra pianura dall’alto, a mo’ di volo d’uccello, o la osserviamo nella sua immagine cartografica, possiamo rilevare un sistema idraulico rappresentato da una fitta rete di canali rettilinei, spesso paralleli o quasi, che confluiscono, infine, con angoli molto stretti. L’esperienza ha insegnato, infatti, che immissioni ad angolo retto o con angolature comunque ampie, determinano problemi gravissimi di assetto idraulico, specie in occasione di forti piene. A tale riguardo, citiamo come esempio che alla fine del 1600 Francesco Sforzini – un personaggio che abbiamo già incontrato nella nostra storia – scrisse che le acque del Timia non dovevano sfociare nel Topino ad angolo retto e che la stessa disposizione doveva essere mantenuta anche per tutte le altre confluenze.
Possiamo anche ricordare che, in generale, i fossi e i torrenti che scorrono o confluiscono nella nostra valle non hanno ancora raggiunto il proprio profilo di equilibrio. Essendo la valle umbra fortemente antropizzata, vi è, pertanto, la necessità di assicurare una cura costante a tutti i bacini imbriferi nel loro complesso, da monte a valle. Dobbiamo considerare che il forte carico solido trasportato, dovuto all’intensa erosione delle aree montane, geologicamente ancora giovani, non permette di valutare come definitiva alcuna delle opere di sistemazione realizzate nel tempo. Non dimentichiamo, poi, che le problematiche idrauliche sono state, e sono ancora oggi, accentuate dal disboscamento delle pendici montane e collinari e dalla distruzione dei boschi a causa degli incendi che devastano il nostro patrimonio arboreo. Tali elementi determinano una più facile erodibilità dei terreni e, quindi, un maggiore carico solido trasportato dai torrenti. Questi, allo sbocco a valle, sono così ricchi di sedimenti, da causare inevitabilmente l’innalzamento dell’alveo. In tal modo ci troviamo con una rete di corsi d’acqua che provengono dalla montagna con alvei rialzati dalle proprie alluvioni e sospesi sulla pianura.
Accanto abbiamo piccoli fossi che drenano le campagne vallive, scorrendo ad altezze inferiori, e che possono confluire nei primi solo dopo chilometri e chilometri, quando i rispettivi profili vengono a trovarsi alla stessa altezza dell’asta idrica principale.
Se prendiamo una tavoletta topografica, possiamo osservare, ad esempio, l’andamento dei fossi Fiumicello dei Prati, Alveolo o Fiumicella Trevana, che si immettono nel corso d’acqua primario solo dopo averlo fiancheggiato a lungo.
Non dobbiamo, poi, trascurare che in genere gli agricoltori tendono da sempre a coltivare ogni mq di terreno disponibile, ivi compresi gli argini, piantandovi alberi e colture varie. Tutto ciò al giorno d’oggi è acuito dalla meccanizzazione della pratica agricola con la quale si tende a fare ogni operazione nel minore tempo possibile, spesso a spese delle cure minimali di manutenzione idraulica dei campi. Talora le lavorazioni interessano anche le scarpate di confine: queste, private della vegetazione ripariale e scalzate alla base dalle arature, tendono a franare cosicché il suolo, non più protetto, diviene facile preda del ruscellamento superficiale. Si deve, ancora, aggiungere che le fosse camperecce non vengono quasi più realizzate, perché d’intralcio alla lavorazione meccanizzata e superveloce dei campi – spesso condotta nei ritagli di tempo lasciati liberi dall’attività economica principale. Eppure quelle fosse, così spesso ignorate, sono fondamentali per la corretta regimazione idraulica dei suoli e per ridurre il pericolo di dissesti. L’individualismo accentuato di ogni singolo proprietario, infine, fa si che oggi, come ieri, la sistemazione idraulica dei versanti, anche laddove realizzata, non venga considerata nella sua complessità, ma limitatamente al “proprio campicello”. Continuano, pertanto, ad accendersi le antiche dispute tra i proprietari di monte e quelli di valle, così come, un tempo, nascevano conflitti anche tra quelli che necessitavano di paratie per irrigare gli orti o macerare le canape e quelli che, per contro, avevano bisogno di un deflusso veloce e regolare delle acque per evitare il pericolo di alluvionamenti.
Molti degli elementi illustrati, sono stati evidenziati a più riprese anche in passato, in occasione di molte delle determinazioni assunte per la bonifica dei luoghi e nella progettazione degli interventi. Si può concludere, dunque, che pure con tutte le leggi e i diversi regolamenti da sempre emanati, vi è, evidentemente, un’insufficiente osservanza delle regole e manca, in particolare, la coscienza del bene comune. Annotiamo, infine, con rammarico, che anche per i problemi di disordine idraulico, che conseguono ad un cattivo uso del suolo, la nostra regione è tra quelle a più alto rischio idrogeologico, come le più recenti cronache continuano, purtroppo, a testimoniare.

 

 

 

 

Confluenza di corsi d'acqua