trevi de planu
... recuperare una disattenzione storica, come quella
subita dal nostro territorio di pianura...
... L'occhio attento ed amorevole di chi vi abita, come
quello del visitatore accorto, saprà allora cogliere...
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Il territorio della Valle Umbra è fecondo di emergenze
storiche, architettoniche e naturalistiche, molto spesso
sconosciute e in troppi casi caratterizzate da un avanzato
stato di rovina...
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Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi se
ne ricordano) da "Il Piccolo Principe"
di Antoine De Saint-Exupery
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Alberi e
Arbusti - Fagaceae
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Gli
Olmi
“… Dib dib bilp bilp: e per le nebbie
rare, / quando alla prima languida dolciura / l’olmo già
sogna di rigermogliare, / lasciano a branchi la città sonora
/ e vanno, come per la mietitura, / alla campagna, dove si
lavora…”
Olmo campestre - Ulmus minor Miller
Ha tronco eretto e molto ramificato, può avere comportamento
arboreo (e raggiungere anche 20 m di altezza) o arbustivo.
La corteccia, di colore verde-bruno, tende a diventare
rugosa e screpolata con l’età. I rametti molto giovani sono
pelosi, ma perdono ben presto questa loro caratteristica. La
foglia, ovale, è tipicamente asimmetrica, con margine a
doppia seghettatura. La pagina superiore è di colore verde
intenso e lucido, quella inferiore un po’ più chiara.
I fiori, di colore rossastro, si aprono a fine inverno sui
rametti ancora spogli di foglie. Il frutto è la tipica
samara (achenio alato), di colore brunastro a maturità, di
forma quasi ovata. È riunito in ciuffetti nella porzione
terminale o mediana del ramo.
L’olmo, insieme all’acero, è la specie tipica delle piantate
con le viti maritate. L’uso di “maritare” la vite all’olmo
si perde nei tempi ed i poeti hanno spesso favoleggiato
intorno a questa usanza. Una certa consuetudine raffigurava
l’olmo come principe consorte della vite regina, la più
importante di questa famiglia vegetale. Interessanti, in
tale contesto, sono i versi di Gherardo De Rossi che
celebrano la dignità della vite a discapito del povero olmo,
con il fine ultimo di onorare le mogli e mettere sull’avviso
i signori mariti. Leggiamoli insieme: “Sorgeva in fertile
/ piano campestre / un infruttifero olmo silvestre, / che
come inutile / tronco malnato, / vivea fra gli alberi /
inonorato. / Pur, mentre ei povero /stassi, ed abbietto, /
la sorte cangia / per lui d’aspetto: / il cultor rustico /
l’olmo destina / sostegno a giovine / vite vicina. / Così
quell’albero, / umile e abbietto, / cangiò da subito /
l’antico aspetto. / Vano è che il mistico / senso vi additi:
/ spiegan la favola / cento mariti”.
La piantata era costituita dai filari di viti maritate. Di
epoca più recente è la realizzazione di filari dove alcune
viti sorrette da pali
tutori (in genere 4 o 5), si frapponevano tra due piante
tutrici che, oltre a sorreggere a loro volta una o due viti
ciascuna, sostenevano i fili di ferro a cui si appoggiavano
anche le altre viti. In inverno e fino all’inizio della
primavera, si provvedeva alla potatura delle piantate che
assumevano, così, quel particolare aspetto che ha
caratterizzato per secoli il paesaggio della nostra pianura.
S’iniziava potando le viti: con le forbici si recidevano i
tralci vecchi e quelli dell’anno non necessari alla
produzione dell’anno seguente, si alleggerivano, poi, in
maniera piuttosto drastica i rami degli alberi tutori;
questa operazione aveva il duplice scopo di provocare un
abbondante riscoppio vegetativo della chioma la stagione
successiva, per produrre così utile foraggio fresco,
inoltre, in primavera, si evitava l’eccessivo ombreggiamento
della vite che invece, in quel periodo, si sviluppa
rigogliosa solo se riceve sufficiente luce. Per le
operazioni di potatura si usavano “le forbici da potà”
e “lu runciu”. Ultimati i tagli di potatura si
legavano i tralci delle viti ai tutori utilizzando come
legacci i rametti sottili del salice, così da guidarli lungo
i fili di ferro, “tirati” tra un albero tutore e l’altro, o
sul tutore stesso. Per rifinire le legature si adoperavano
ancora le forbici. Ogni contadino che si apprestava a
compiere la potatura, era in genere dotato di una cinta di
cuoio con due ganci, su quello posteriore si appendeva “lu
runciu”, sull’altro un corno di bue utilizzato come
custodia per le forbici. Altro attrezzo impiegato per quest’operazione
colturale era la sega, necessaria per tagliare i rami più
grossi. La piantata era così pronta per dare tutti i suoi
frutti. L’olmo, infatti, è stato a lungo utilizzato anche
per produrre foraggio per il bestiame. Nell’economia chiusa,
tipica delle famiglie mezzadrili, questo albero è stato uno
degli elementi fondamentali della così detta “poli-coltura
verticale”, per la quale dai terreni impiantati con le viti
maritate all’olmo si riuscivano ad ottenere tre produzioni
“in verticale”, ossia cereali o foraggi al livello del
suolo, uva dalle viti, e, ancora sopra, foraggio verde – “li
murricchi” o “le fronne” – dai rami degli olmi.
Nella nostra zona l’olmo si è drasticamente ridotto come
numero, non solo perché si è persa la tradizione di questa
speciale tecnica di coltivazione della vite, ma soprattutto
a causa di una malattia: la graphiosi dell’olmo,
causata da un fungo che, determinando la chiusura dei vasi
linfatici, genera l’essiccamento della pianta.
Le Querce
“… Si sa: la quercia deve dar le
ghiande, / e il fico i fichi, ed il castagno i cardi. /
Vivande, noi; solo il rosaio, ghirlande!…”
Farnia - Quercus robur L.
Si presenta con portamento maestoso (può raggiungere altezze
anche di 30-40 m), con chioma espansa e cupoliforme. Ha
foglie caduche ed alterne, di un bel verde intenso sulla
pagina superiore, decisamente più chiaro su quella
inferiore, con apice espanso e lamina stretta, quasi
sessile, attaccandosi ai rami con picciolo assai breve.
All’attacco sono presenti due caratteristiche orecchiette
asimmetriche. Il frutto, la ghianda, è ovoidale o
cilindrico, lungo dai 2 ai 4 cm, con capsula a squame
arrotondate e rilevate. Si inserisce, singolarmente o in
numero di 2-4 frutti, sul ramo portante, mediante un lungo
peduncolo (3-6 cm). La corteccia è grigiastra e solcata.
Molto simile alla rovere (Quercus petraea (Mattuschka)
Liebl.), con la quale peraltro si ibrida frequentemente, se
ne distingue facilmente proprio grazie all’attaccatura delle
ghiande (che nella rovere sono sessili). Il legno della
farnia è piuttosto pregiato (seppure meno di quello della
rovere) ed è anche un ottimo combustibile. La farnia è una
specie ormai quasi completamente scomparsa dalle nostre
pianure, se si fa eccezione per qualche esemplare di pianta
ibridata con querce appartenenti ad altre specie.
Leccio - Quercus ilex L.
È certamente la quercia sempreverde a più ampia diffusione
presente nel nostro territorio. È tipica delle aree con
climi mediterraneo-montani e sopporta abbastanza agevolmente
la siccità estiva. Le foglie adulte hanno la pagina
inferiore coperta da una peluria grigiastra, mentre quelle
dei polloni sono spinose e simili alle foglie
dell’agrifoglio. I frutti, le ghiande, presentano la cupola
con squame appressate e peli grigi. La corteccia, per la sua
ricchezza in tannini, è usata nella concia delle pelli e
anche in tintoria. Il legname che si ricava dal leccio è
molto resistente ma difficilmente lavorabile. È un buon
combustibile ed è apprezzato anche per il carbone e la
carbonella. Tra gli elementi che ci possono guidare al
riconoscimento del leccio, ricordiamo le foglie sempreverdi,
coriacee, che permangono sull’albero anche in inverno. Il
leccio è la specie tipica del Lauretum, zona
fito-climatica che si estende dalla piana sino a circa
550-600 m s.l.m. ed era certamente presente anche nel bosco
sacro, per la cui protezione fu stilata la legge scolpita
sui cippi rinvenuti a Picciche e San Quirico. Nel territorio
collinare che borda la valle umbra, il leccio è stato quasi
ovunque sostituito dagli olivi, messi a coltura nel corso
dei secoli e divenuti nel tempo la vegetazione più
caratteristica di questa fascia ambientale.
Roverella - Quercus pubescens Willd.
È un albero caducifoglio, che perde, cioè, le foglie in
autunno, anche se in molti esemplari le foglie ormai secche
si attardano sull’albero per tutto l’inverno. Si presenta
con una bella chioma, larga ed irregolare, che ci offre con
la sua ombra un po’ di sollievo durante le passeggiate in
campagna negli afosi pomeriggi d’estate. Le foglie della
roverella sono alterne, con lobi simmetrici. Talora sono
dentate, pelose, o meglio pubescenti, nella pagina
inferiore. Questa caratteristica è evidentissima
specialmente nelle foglie giovani. La pagina superiore della
foglia è liscia. Il frutto, la ghianda, ha una cupola a
scagliette grigiastre, piccole e pelosette. Densamente
pelosi sono anche i rametti. I fiori maschili, di colore
verdastro, e quelli femminili, costituenti infiorescenze
piccole e di pochi elementi fiorali, sono presenti sullo
stesso individuo (specie monoica). La roverella ha la
corteccia grigio-scura, fessurata longitudinalmente. È un
albero maestoso che può raggiungere l’altezza di 25 m. La
roverella è piuttosto sensibile alle gelate tardive,
predilige i climi caldi, sopporta bene l’aridità estiva e si
sviluppa meglio in condizioni di forte intensità luminosa.
Il suo legname è molto apprezzato come legna da ardere per
l’alto potere calorifico.
La diffusione della roverella nel nostro ambiente è legata
sia alla sua estrema adattabilità, sia, soprattutto, al suo
frutto, la ghianda, che i contadini raccoglievano per
alimentare i maiali. Nel nostro territorio annoveriamo
piante centenarie, veri monumenti arborei degli spazi
planiziali.

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Roverella
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