trevi de planu
... recuperare una disattenzione storica, come quella
subita dal nostro territorio di pianura...
... L'occhio attento ed amorevole di chi vi abita, come
quello del visitatore accorto, saprà allora cogliere...
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Il territorio della Valle Umbra è fecondo di emergenze
storiche, architettoniche e naturalistiche, molto spesso
sconosciute e in troppi casi caratterizzate da un avanzato
stato di rovina...
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Tutti i grandi sono stati bambini una volta (Ma pochi se
ne ricordano) da "Il Piccolo Principe"
di Antoine De Saint-Exupery
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Picciche è una piccola frazione, ubicata
tra Cannaiola e Castel San Giovanni, ai lembi sud
occidentali del comune di Trevi.
Quest’area, fino al XIV secolo circa, doveva essere soggetta
alle esondazioni del torrente Tatarena, che lambisce
l’abitato ad occidente: in quel secolo, infatti, il torrente
venne riconfinato. Le ricche alluvioni, lasciate dal corso
d’acqua nelle sue divagazioni planiziali, hanno reso questa
terra poco generosa.
Durastante Natalucci nella
“Historia
… di Trevi”,
così ne descrive il territorio: “…
Come da per tutto è coltivato, eccettuatone poco tratto di
là dalla Tatarena. Nella guisa che è ripieno di pergole ed
altri frutti ed è ancora fruttifero per il grano, canape ed
ogni sorta di vettovaglie attesa la bona cultura, imperoché,
a seconda della terra, non è molto fertile essendo ripiena
la sua maggior parte della sterile impostura e sabbione di
detto torrente…”.
Picciche ebbe origine, probabilmente, nel 16° secolo: il
Piccolpasso ci dice, infatti, che al suo tempo il luogo era
nuovo, fatto alla creazione di papa Leone X, e che, tra
contado e paese, si contavano 40 fuochi. Nella “Historia …
di Trevi”, leggiamo che il castello fu costruito nel 1516
per salvaguardare gli abitanti del luogo dalle incursioni
degli Spoletini. Un castello non molto grande, ma forte e
ben tenuto, circondato da un fossato dove si potevano
pescare “le tinghe, l’anguille ed i saltarelli”.
Protetto da alte mura di mattoni cotti, con due grandi torri
ai cantoni e porta con ponti levatoi. All’interno vi erano
delle case riservate agli abitanti del luogo, per le
evenienze dettate dalla poca pacificità dei tempi, e che per
questo fine non potevano essere vendute ai forestieri.
Il castello originario, di cui oggi non resta quasi nulla,
aveva forma di rettangolo sghembo, con ingresso ad
occidente.
Nell’opera del grande storico di Trevi, leggiamo che la
Balia di Picciche è la quinta del Terziere del Piano e che
nei tempi antichi era unita ad altre balie sotto il nome di
Balia delle Porcarie, essendo sconosciuto l’attuale
appellativo. Vi facevano parte i vocaboli denominati: “…
Selvale, S.Stefano, Campo Cupo, Strada, Vallone, Casa di
Citerone, Casa di Minico, Vannetta, Castello delle Picciche,
Cese, Tatarena…”. Successivamente appartenne al Terziere
di Cannaiola e quindi, con la soppressione di questo, fu
aggregato direttamente al comune di Trevi.
Di particolare menzione, è la chiesa parrocchiale. Questa fu
realizzata prima del castello, come testimoniato con
certezza dalla presenza di un affresco datato 1510, dipinto,
sulla parete sinistra, ad opera della bottega del Melanzio,
forse dal nipote Febo. Di questo lavoro ricordiamo, in
particolare, un crocefisso tra quattro Santi, di cui oggi
restano i ss.Sebastiano e Antonio Abate.
Non si può escludere che questo edificio sia stato costruito
sui ruderi di un antico tempio pagano. Su un muro di questa
chiesa, lo spoletino Giuseppe Sordini, insigne archeologo,
rinvenne un cippo con un’iscrizione in latino arcaico,
risalente alla fine del II o III sec. a.C. Si tratta di un
blocco calcareo con incisa la così detta “lex spoletina”
o “lex lucaris”: “Nessuno violi questo bosco né
trasporti né porti via ciò che è bosco né tagli fuorché nel
giorno in cui si farà il sacrificio annuo. In quel giorno,
purché si faccia per causa del sacrificio, sia lecito
tagliare senza colpa. Se qualcuno lo avrà violato, offra a
Giove un sacrificio espiatorio con un bue e ci siano per
quel sacrificio 300 assi di multa e l’esazione della multa
spetti al consacrante”. Il tempio sui ruderi del quale,
secondo un’antica tradizione, è stata forse edificata la
chiesa di Picciche, poteva essere dedicato a Giove e la
legge incisa sulla pietra poteva essere quella di tutela di
un bosco sacro qui presente. Una selva ormai scomparsa, che
a quel tempo era lambita da un’importante via di
comunicazione.
Precedentemente, sul colle di San Quirico era stato
rinvenuto un altro cippo della stessa epoca, sempre
riportante la legge di tutela del bosco sacro. L’archeologo
Sordini, che ne apprezzò l’importanza, provvide a rimuoverli
dai luoghi di ritrovamento per farli custodire nel museo di
Spoleto.
Il bosco cui i due cippi fanno riferimento è certamente il
medesimo. Occupava una superficie piuttosto ampia, anche se
non vastissima, che poteva comprendere le terre di
Pissignano, S. Quirico, Picciche e Castel San Giovanni. Si
tratta probabilmente dello stesso bosco cui fa cenno Plinio
il Giovane nella sua lettera all’amico Romano “… Ai piedi
di un piccolo colle, coperto di cipressi assai folti, sgorga
una sorgente…”. Non scordiamo che il cipresso ha sempre
rivestito per l’umanità un ruolo speciale, quasi sacrale, e
la fitta presenza di questa specie arborea nel bosco ivi
ubicato, è indice ulteriore della religiosità insita in quei
luoghi silvani, oggi purtroppo perduti. Lo stesso bosco, pur
ridotto arealmente rispetto alla sua estensione originaria,
è sicuramente quello descritto da Durastante Natalucci nella
sua “Historia … di Trevi”, quando, tracciando i confini del
Terziere del Piano, ci narra di una selva che si protende
fino ai confini di Spoleto e Montefalco. Per soddisfare la
curiosità che forse può sorgere nel lettore, ricordiamo che
anche oggi il bosco è tutelato da varie normative, sia
nazionali, sia regionali, tra le quali citiamo – senza
volere essere esaustivi – il R.D.L. n° 3267 del 1923, con il
relativo Regolamento n° 1126 del 1926, il D.Lgs. n° 490 del
1999 e, tra le normative regionali dell’Umbria, la L.R. n.32/80
e il Reg. Reg. n. 1/81.
Tornando alla parrocchiale di Picciche e al suo patrimonio,
ricordiamo la presenza di una grande struttura monolitica,
perfettamente squadrata, forse proveniente dal tempio
citato.
La chiesa è una struttura a quattro navate, a croce greca,
dedicata a santo Stefano. Dalla cupola emerge una lanterna
ottogonale con quattro finestre tabernacolari. Fu
interamente ricostruita (dalle fondamenta) nel 1902, per
volontà del parroco don Pietro Bolletta, e consacrata
dall’allora arcivescovo di Spoleto, mons. Domenico Serafini.
Alla memoria di don Pietro, parroco di questa frazione per
quasi cinquant’anni, i fedeli riconoscenti eressero un busto
in bronzo su travertino, opera dell’architetto romano
Giaroli, ancora visibile nella frazione.
All’interno della chiesa si conservava una tavola cuspidata
raffigurante una Madonna con bambino in trono,
attribuita a Bartolomeo da Miranda, oggi al museo diocesano
di Spoleto. Le opere di maggior pregio sono presenti
nell’abside, ove si riconoscono, tra le altre di minore
valore, frutto del lavoro di bottega, le figure della
Madonna e del Santo patrono, degne dei migliori lavori di
Francesco Melanzio, discepolo del Perugino.
Di particolare pregio è, inoltre, l’organo, opera del
Maestro Calogero La Monica di Viterbo e di suo figlio
Pietro. Tale strumento fu inaugurato il 16 ottobre 1805
nella chiesa di San Luca, a Spoleto. Fu quindi acquistato
nel 1919, per 1.000 lire, dal parroco di Picciche, don
Pietro Bolletta. L’organo, a lungo inutilizzato, è oggi
perfettamente funzionante grazie ai restauri della ditta
folignate del signor Umberto Cruciani. Dal 16 settembre del
1990, giorno in cui è stato inaugurato il suo ritorno agli
antichi splendori, con un concerto del M.° Ottorino
Baldassarri, questo organo fa nuovamente udire il suono
potente dei suoi 12 registri originari, che conservano il
pregio del timbro particolare, dovuto anche al felice
invecchiamento delle sue canne armoniche.
All’interno dell’abitato attuale, lungo la via Tatarena,
troviamo una delle più belle edicole della valle
folignate-spoletina. Lavoro di un pittore minore che dipinse
altre immagini nella valle, quest’opera risale alla prima
metà del XVI secolo. Vi sono raffigurati la Madonna con il
Bambino e due angioletti che ne sorreggono la corona. Sulla
volta vi è il Cristo risorto e ai lati i ss.Antonio Abate,
Stefano, Rocco e Sebastiano.
Sempre a Picciche, questa volta in prossimità della chiesa,
troviamo un’altra edicola di un certo interesse, che ha la
particolarità di presentare dipinto il Santo degli umili,
patrono degli Italiani, san Francesco. Qui annotiamo che la
raffigurazione del Santo dei poverelli nelle cappelle votive
e nelle edicole della nostra campagna è piuttosto tardiva.
Tornando all’esame di questa seconda immagine, che si può
far risalire al XVI secolo, registriamo che la
raffigurazione principale, di fondo, simboleggia la Trinità,
mentre in un intradosso vi sono il Santo di Assisi e san
Giovanni Battista e, dalla parte opposta, due pie donne,
sante e martiri – come testimoniato dal fatto che stringono
una palma – Agata e Lucia. In alto, degli angeli si
affacciano da una apertura circolare.
Se arriviamo oggi a Picciche notiamo la decadenza d’insieme
dei pochi resti delle antiche mura, tra cui rileviamo anche
la porzione basale di un torrione d’angolo, per gran parte
inglobato in una recente costruzione, e di alcune vecchie
abitazioni. Un’analisi, seppure compendiata,
dell’architettura del luogo, dei segni rinvenibili sui muri,
tra le pietre cadenti e i rifacimenti successivi, ci
consente di datare alcune di quelle costruzioni, o meglio
alcune porzioni delle medesime, tra la II metà del XV e il
XVII secolo. Ad esempio, come curiosità che potrebbe
interessare i nostri lettori, facciamo rilevare la presenza
di architravi, appena curvati, realizzati con mattoni posti
di coltello, sormontati da una fila di mattoni sistemati di
piatto, strutture che nel capoluogo municipale sono tipiche
di edifici datati con sicurezza alla seconda metà del ‘400.
È possibile presumere che una parte delle abitazioni
racchiuse dalle mura castellane fosse preesistente alla
fortificazione, avvenuta, come già ricordato, ai tempi di
papa Leone X. Come per altre aree planiziali, anche nel caso
di Picciche rileviamo un forte interramento dei luoghi,
testimoniato dalla posizione seminterrata dei resti di
alcune porte.
Intervistando qualche abitante del paese si scopre che la
rovina pressoché definitiva del castello è avvenuta, in
particolare, negli ultimi cinquant’anni del secondo
millennio, quando è stato chiuso anche il fossato che
circondava l’abitato e dove, forse sino alla fine degli anni
‘50, si è continuato anche a pescare. È evidente che, negli
anni del dopoguerra, le rinnovate necessità di
un’edificazione a poco costo ma con prerogative tipiche di
abitazioni più confortevoli anche da un punto di vista
igienico-sanitario, ha indotto ad utilizzare le vecchie
strutture, modificandole per le esigenze più moderne. Ha
obbligato a recuperare materiali dai muri in rovina, senza
rispettare alcuno dei criteri che sovrintendono il restauro
conservativo. Così, abitazioni villerecce più recenti hanno
inglobato le vestigia del passato storico della valle, con
lo scempio conseguente che oggi è sotto gli occhi di tutti.
Ciò nonostante, dalle parole degli abitanti del posto
traspare l’amore per questi antichi mattoni che loro
malgrado, per le impellenze di una povertà onesta e
dignitosa, per l’inconsapevolezza del patrimonio culturale
che li circondava in ogni frammento di territorio, non hanno
potuto conservare, come magari oggi vorrebbero, potrebbero e
saprebbero fare. Forse, ma la nostra è solo un’ipotesi di
lavoro, è mancata da parte degli amministratori locali – che
quella consapevolezza culturale avrebbero dovuto possederla
per il ruolo che erano chiamati a ricoprire – la coscienza
che non solo il centro storico del capoluogo meritava
attenzioni particolari, ma anche ognuno di questi piccoli
villaggi planiziali. Contrade sopravvissute nei secoli alle
scorribande delle masnade, che hanno imperversato in lungo e
in largo nella nostra pianura. Scampate alle divagazioni,
spesso violente, delle acque fluviali e torrentizie. Sempre
risorte dalle rovine dei forti terremoti, che hanno seminato
più volte morte e distruzione nelle nostre valli. Veterane
di una povertà ancestrale, che imponeva agli abitanti ben
altre esigenze che quelle della conservazione
dell’architettura storica delle loro spoglie dimore.

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Parrocchiale di Picciche, affreschi del soffitto
dell'abside
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