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L'Italia ha un cuore verde: l'Umbria. L'umbria ha uno splendido punto panoramico, da dove lo sguardo si perde...

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Le schede di seguito riportate, al fine di facilitare il compito dei neofiti e di favorirne la consultazione, sono ordinate semplicemente in ordine alfabetico. Per la nomenclatura abbiamo adottato quella scientifica proposta dallo Zangheri nella sua "Flora Italica". Questa è preceduta, evidenziata in celeste, dal nome volgare con cui è conosciuta la pianta cui la scheda si riferisce. Per qualche specie abbiamo proposto, indicandolo, anche il termine dialettale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Corbezzolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Robinia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vitalba

 

L'acero minore (Acer monspessulanum L.), della famiglia delle Aceracee, è un albero deciduo di piccole dimensioni, con foglie piccole, coriacee, trilobe. Ha fiori giallo-verdastri, riuniti in infiorescenze appiattite alla sommità, pendule a maturazione, che compaiono anche prima delle foglie. I frutti, le samare, hanno ali circa parallele o anche sovrapposte ai margini, di colorazione un poco rosata.

L'agrifoglio (Ilex aquifolium L.), della famiglia delle Aquifoliaceae, è un arbusto che può raggiungere l'altezza di 7-8 m. Ha corteccia liscia di colore grigiastro e foglie alterne, coriacee, di colore verde scuro intenso. Lucide sulla pagina superiore, hanno margine ondulato, talora spinoso. I fiori si presentano assai poco appariscenti, di colore biancastro; compaiono tra maggio e giugno. Il frutto è la drupa rossa che colora, insieme con quella del pungitopo (Ruscus aculeatus), il bosco in inverno ed allieta, nella tradizione, le ghirlande delle feste natalizie. È una pianta sempreverde, bellissima, molto ricercata proprio per le sue bacche rosse e per la tradizione di cui dicevamo. È protetta, per cui ne è vietata la raccolta.

L'ailanto (Ailanthus glandulosa Desf) è un alberello a rapido accrescimento della famiglia delle Simaroubaceae, che comprende alberi ed arbusti per lo più tropicali. L'ailanto, in particolare, è originario della Cina. I frutti sono molto particolari: si presentano come ciuffi, ovviamente essi pure penduli, ad ala ritorta, le così dette samare, che contengono un seme schiacciato. Maturano a fine estate. La corteccia è simile a quella del Faggio. L'ailanto sviluppa molti polloni, per questo tende a formare boscaglie invadenti lungo le strade, nei luoghi incolti. E' utilizzato per alberature in città, anche per la sua estrema resistenza agli inquinanti atmosferici. È stato introdotto in Italia dalla Cina nella seconda metà del XVIII secolo. Ebbe larga diffusione nel periodo delle malattie del baco da seta, altrimenti detto filugello, per tentare di salvare l'industria serica, allevando la sfinge dell'ailanto. Il tentativo, tuttavia, non ebbe successo. Per finire, una ricetta per i capelli grassi: il decotto di corteccia di ailanto. Prepariamo il decotto con 3 grammi di corteccia di rami giovani in 100 ml d'acqua. Con questo preparato risciaquiamo i capelli dopo lo shampoo. Ricordiamo che la corteccia si raccoglie in primavera o in autunno, incidendo delle strisce con un coltello. Si essicca al sole, spezzettata, e si conserva in sacchetti di carta o di tela (in Umbria: specie introdotta).

L'alloro o lauro (Laurus nobilis L.), della famiglia delle Lauraceae, di cui rappresenta la sola specie naturalmente presente in Europa, è un arbusto o alberello sempreverde, le cui foglie, quando stropicciate, sono molto aromatiche. È nativo delle macchie sempreverdi, mediterranee. Spesso è coltivato, sia per ornamento, sia per i suoi impieghi. Ha fogliame color verde scuro, coriaceo, retto da un corto picciolo. Il frutto, una drupa lucida e nera, grande più o meno come un'oliva, è in genere portata in coppia, al termine di due brevi peduncoli. Il margine delle foglie è spesso ondulato. Il legno di questa pianta è dolcemente aromatico ed è utilizzato per intarsi. La corteccia, inizialmente verde, diviene a maturità color cenere. Le foglie sono usate in cucina per aromatizzare. Dall'alloro si estrae un olio, l'olio d'alloro, un tempo usato contro i reumatismi, tuttora utilizzato in campo veterinario e talora anche in profumeria. Alcune foglie d'alloro messe nei sacchetti della farina e della pasta impediscono agli insetti di rovinare la nostra dispensa. Venti grammi di bacche d'alloro, raccolte in autunno ed essiccate in forno a bassa temperatura, lasciate a macerare per 5 giorni in olio d'oliva, rappresentano un ottimo linimento in caso di reumatismi e strappi muscolari. Per ottenerne i benefici è sufficiente massaggiare la parte dolente con la tintura oleosa descritta. In caso di eccesso di sudorazione dei piedi, può essere di qualche sollievo fare un pediluvio con acqua calda in cui sono state messe delle belle foglie, grandi e lucenti, d'alloro. Bisogna prestare grande attenzione a non confondere le piante di lauro con quelle di lauroceraso (Prunus laurocerasus L.) della famiglia delle Rosaceae, velenoso. È una pianta utilizzata frequentemente per bordare le recinzioni. In tale contesto possiamo trovare piuttosto facilmente il lauroceraso lungo il percorso n. 1, in varie zone, anche in prossimità dell'alloro qui segnalato. Questo arbusto ha foglie grandi, sempreverdi, lucide e scure sulla pagina superiore, molto pericolose per il loro contenuto in prulaurasina (glicoside) che fermentando libera acido cianidrico, dal caratteristico odore di mandorle amare. Ricordiamo che anche i frutti sono pericolosissimi, tanto che 10 drupe di lauroceraso possono uccidere un bambino. L'acido cianidrico è molto dannoso anche per gli animali, in quanto non permette ai tessuti d'assorbire l'ossigeno del sangue. Il lauroceraso ha corteccia grigio-bruna. Rami, piccioli e gemme sono di colore verde. Le foglie, quando la pianta è adulta, possono raggiungere la ragguardevole lunghezza di 15-20 cm circa. I frutti, a grappoli, sono neri e lucidi. Sono costituiti da più drupe, in genere lunghe circa 1 cm cadauna, che racchiudono un seme liscio e appuntito. Il lauroceraso ha infiorescenze erette (portate in racemi alle ascelle delle foglie - lunghe al più come le stesse foglie) che possono aiutarci a riconoscerlo dal lauro nobile.

Il bagolaro, o albero dei rosari, in dialetto cirimpiccolo o fanfino, (Celtis australis L.), della famiglia delle Ulmaceae (la stessa degli olmi, per intenderci) è un albero caducifoglio che può raggiungere i 25 metri d'altezza. Ha foglie ovato-lanceolate, fittamente e acutamente dentate, che terminano caratteristicamente con una punta talora contorta. La foglia è ruvida sulla pagina superiore, pelosetta su quella inferiore che diviene glabra con l'età. Il tronco è liscio e i rami, flessibili, sono coperti da fitta peluria. I fiori sono portati al termine di lunghi peduncoli e compaiono contemporaneamente alle foglie. I frutti, verdi inizialmente, divengono bruno scuri, quasi neri, a maturità. Sono retti da un lungo peduncolo; sono commestibili, dolciastri e racchiudono un nocciolo, punteggiato, molto duro. Il nome di albero dei rosari deriva proprio dall'utilizzo dei noccioli, con i quali si facevano i rosari. I rami, come detto flessibili, sono stati utilizzati come ma nici delle fruste, il legno per realizzare utensili vari, come bastoni da passeggio, ecc. Nella valle folignate - spoletina il bagolaro è piuttosto comune in vicinanza dei casali, in passato, infatti, il fogliame veniva utilizzato nel periodo estivo come foraggio.

Il caprifoglio, appartiene al genere Lonicera, alla famiglia delle Caprifoliaceae. Il genere Lonicera comprende circa 180 specie, velenose, per la presenza della sostanza amara detta xylosteina e di altre sostanze tossiche, di più recente scoperta, tra cui la lonicerina, la siringina e varie saponine. Sono pericolose, in particolare, le bacche, in genere nere ma in alcune specie anche rosse, globose, che attirano l'attenzione dei bambini. In letteratura si conoscono casi d'avvelenamento, di piccoli, per ingestione dei frutti del caprifoglio. Per descrivere brevemente il caprifoglio, possiamo annotare che si tratta di un arbusto, con foglie opposte. In alcune specie, tra cui il Lonicera etrusca, il Lonicera caprifolium, il Lonicera periclymenum, le ultime due foglie di ciascun ramo sono concresciute, a formare un'unica foglia, che risulta come attraversata dal fusto fiorale. La corolla è molto caratteristica e si può tranquillamente affermare che, vista una volta, è piuttosto facile identificarla, anche se appartenente a specie diverse. In pratica ogni corolla si presenta come un tubicino stretto e lungo, con lacinie bilabiate e con stami che sporgono dal tubo della corolla. Numerose sono le forme ornamentali, coltivate ad esempio per siepi.

Il castagno (Castanea sativa Miller), della famiglia delle Fagaceae, è un albero bello ed imponente che può raggiungere anche i 30 metri d'altezza. Originario dell'Europa sud-orientale, è stato introdotto nei restanti paesi europei probabilmente dai Romani. La chioma del castagno è uniforme, retta da pochi rami robusti ed estesi. Le foglie sono strette e lucide, seghettate e di colore verde scuro, con nervature laterali vistose. Sono tra le più lunghe delle specie arboree, potendo raggiungere anche 25 cm di lunghezza. Un elemento caratteristico, che facilita il riconoscimento di questo albero, è la corteccia che presenta profonde rigature a spirale ed anche la tarda comparsa dei fiori che avviene a primavera avanzata, molto dopo la nascita delle foglie. Quando il fiore femminile matura, producendo il frutto spinoso, il fiore maschile avvizzisce. Ogni frutto contiene in genere due castagne dalla buccia marrone scuro e dalla polpa farinosa e dolce. Il legno del castagno, pur essendo forte e durevole, non è considerato di particolare pregio. Spesso è ceduato per ottenere piccoli pali. Questi, specialmente con un preventivo trattamento a base di bitume, sono usati per palizzate, staccionate, e varie opere all'aperto. Il castagno è, come suggerisce il nome stesso, una delle specie arboree tipiche della zona a Castanetum, zona fito-climatica intermedia della classificazione del Pavari (1916), che si estende a partire dai 550 sino agli 800 m s.l.m. circa. La ridotta estensione del castagneto, nel nostro ambito comunale occupa circa una decina di ettari, è dovuta alle particolari caratteristiche del terreno (di tipo acido - subacido) e del microclima locale che il castagno richiede per prosperare. I castagni sono in parte coltivati per la produzione dei frutti, le castagne (castagneti da frutto) o per la produzione di legno (castagneti cedui, d'alto fusto). Le castagne di Manciano, un tempo, erano assai apprezzate e si vendevano non solo nei mercati trevani ma anche in quelli spoletini.

Il ciliegio selvatico (Prunus avium L.) della famiglia delle Rosaceae, ha foglie ovato-ellittiche, rugose, lunghe anche 15 cm. Si presentano appena pelose nella pagina inferiore, almeno nella fase giovanile, e sono rette da un picciolo che può essere lungo anche il doppio delle stesse foglie. Il ciliegio ha fiori bianchi e frutti rossi, le drupe carnose ed invitanti che tutti conosciamo e che nelle piante selvatiche difficilmente superano il centimetro di diametro. La corteccia di quest'albero è bruno-rossastra, lucente e si spella orizzontalmente. Il legno del ciliegio ha un colore caldo, ed è considerato di particolare pregio nella stipetteria, nella lavorazione delle pipe e degli strumenti musicali.

Il carpino nero (Ostrya carpinfolia Scop.), della famiglia delle Corylaceae, è un albero o arbusto che può raggiungere i 12 m d'altezza. Ha la corteccia scura e foglie di forma ovale, acute, con margine seghettato, di lunghezza, in genere, compresa tra 5 e 10 cm. Sono rette da brevi piccioli. Nella fase giovanile le nervature delle foglie presentano una pelosità evidente. Uno degli elementi che ci consente il riconoscimento del carpino nero è il frutto, pendulo, che ci appare come un grappolo di colore verde-giallastro chiaro, simile a quello del luppolo. Altra caratteristica è la fine screpolatura della corteccia.

Il cerro (Quercus cerris L.), della famiglia delle Fagaceae, è un grande albero a foglie caduche, che può raggiungere l'altezza di 35 metri. Si riconosce abbastanza facilmente dalle altre querce per la presenza di stipule lunghe e strette che rileviamo sia alla base del picciolo, sia intorno alle gemme. Le ghiande sono brevemente peduncolate e sono portate, sotto le foglie dell'anno, dai rami dell'anno precedente. Caratteristiche sono anche le cupole, fittamente ricoperte da squame sottili, morbide ed acute. Le foglie sono inizialmente opache, quindi diventano lucide, con superficie ruvida sulla pagina superiore e appena lanosa su quella inferiore. I margini sono lobati, con lobi a punta, o con grandi denti. Il legname del cerro non è di particolare pregio.

Il cipresso comune (Cupressus sempervirens L.), della famiglia delle Cupressaceae, ha forma snella, slanciata, quasi colonnare, di colore scuro. È il cipresso tipico dei nostri cimiteri. I coni femminili ci consentono un facile riconoscimento di questa pianta: si presentano infatti come globuli con squame pentagonali, piatte. Boschi naturali di cipressi si trovano allo stato attuale, per quanto ci consta, solo nell'isola di Creta. Il cipresso comune ha legname durevole, fragrante, molto ricercato nell'antichità.

Il cisto a fiori rosa (Cistus incanus L.), detto anche rosola, della famiglia delle Cistaceae, è un arbusto molto frequente lungo i sentieri che abbiamo imparato a conoscere con questa guida. Si presenta molto ramificato, con altezza variabile, anche fino a 1,5 metri. Le foglie del cisto a fiori rosa sono ellittiche-ovate, ricoperte da peluria e appena ondulate ai margini. I fiori, che riempiono fittamente il cespuglio di cisto, sono rosa, con diametro della corolla anche di 6 centimetri e con 5 petali, quasi impalpabili, delicatissimi. Gli elementi che ci consentono il riconoscimento di questa specie sono il colore dei petali, le foglie picciolate (il Cistus albidus L., relativamente simile nell'aspetto esteriore, le presenta, ad esempio, sessili) ed il fiore, con stimma mai sessile, a stilo allungato all'incirca come gli stami. Il cisto a fiori rosa è un arbusto tipico delle macchie e dei prati aridi, calcarei.

Il corbezzolo (Arbutus unedo L.) è detto in dialetto cerasa marina, della famiglia delle Ericaceae. È l'arbusto sempreverde che rosseggia nei boschi in autunno con i suoi frutti carnosi. Ha i fiori tipici delle ericacee, a forma di anforetta, di colore crema o bianco. Ha foglie coriacee, con margine seghettato, pagina superiore verde scuro e pagina inferiore di colore più chiaro. Caratteristica del corbezzolo è di "portare" contemporaneamente fiori e frutti (rossi alla maturazione e rugosi o meglio verrucosi). Questi sono eduli, tuttavia per taluni poco gustosi, tanto che il nome specifico (unedo) sta ad indicare "uno solo", nel senso che è più che sufficiente mangiarne un solo frutto. In ogni caso è bene non eccedere nelle scorpacciate di "cerase marine", perché potrebbero risultare poco digeribili.

Il corniolo (Cornus mas L.), grugnale in dialetto, della famiglia delle Cornaceae, fiorisce tra la fine di febbraio ed i primi di marzo, quando è ancora senza le foglie che compaiono dopo la fioritura. I piccoli boccioli e i minuscoli fiori stellati sono di colore giallo oro. Il corniolo ha foglie opposte, con nervature evidenti. Il frutto è una drupa, oblunga, commestibile, di sapore acidulo, rosso scuro a maturazione, con cui si preparano deliziose marmellate. Il legno del corniolo è duro e compatto. Un proverbio che raccontano i nostri vecchi, ne descrive le qualità in questi termini "il legno del grugnale rompe l'ossa e non fa male".

Le eriche, della famiglia delle Ericaceae, sono arbusti con fiori campanulati, a forma d'anforetta, riuniti in infiorescenze, e foglie aghiformi.
Della pianta d'erica, si utilizza il ciocco che è impiegato per la fabbricazione dei camini delle pipe. L'estrazione del ciocco si ripete, di norma, ogni 40 - 50 anni sulla medesima pianta e consente di ottenerne anche 30 quintali per ettaro di bosco. Le ramificazioni dell'erica scoparia sono utilizzate per fare le scope. Il legno d'erica per la sua compattezza ed omogeneità, quando raggiunge dimensioni sufficienti, è usato per piccoli lavori d'ebanisteria, specie al tornio.

Il ginepro comune (Juniperus communis L.) ha aghi a punta, appiattiti, con una banda grigia centrale. Le bacche di ginepro comune, a maturazione, sono di colore nero-blu ed hanno un caratteristico aroma, apprezzatissimo in cucina. Proponiamo due ricette erboristiche: 1) il vino di ginepro; 2) la frizione alcolica al ginepro.
1) Prendiamo 15 grammi di bacche schiacciate e la scorza gialla di un limone. Mettiamo a macerare il tutto in un litro di vino bianco e secco, ad alta gradazione. Lasciamo riposare il composto per 15 giorni. Quindi filtriamo e riponiamo in bottiglia. Due bicchierini al giorno di vino di ginepro si rivelano eccellenti in caso d'inappetenza e reumatismi. In generale, il vino di ginepro è tonico, digestivo e diuretico. Importante: i preparati, i vini, i liquori, le grappe a base di ginepro non devono essere assunti per più di 5-6 gg. consecutivi. Dosi elevate di bacche di ginepro possono provocare irritazione all'apparato urinario e renale. I preparati a base di ginepro non vanno somministrati alle donne in gravidanza.
2) Prendiamo 50 grammi di bacche di ginepro schiacciate e 10 grammi di foglie di rosmarino. Mettiamo a macerare in un bicchiere d'alcool denaturato. Lasciamo riposare il composto per circa 15 giorni. Quindi filtriamo e misceliamo con 25 grammi d'olio di ricino. Il composto alcolico può essere utilizzato per frizionare parti dolenti in caso di dolori reumatici. La parte frizionata andrà quindi tenuta bene in caldo, ad esempio con una pezza di lana.

Il ginepro spinoso o ginepro rosso (Juniperus oxycedrus L.) è in genere tendenzialmente più grande del comune. Presenta aghi appiattiti con due bande grigie. Le bacche, a maturazione, sono di colore rosso-mattone.
I ginepri appartengono alla famiglia delle Cupressaceae. Sono arbusti tipici dei terreni calcarei.

Il faggio (Fagus sylvatica L.) appartiene alla famiglia delle Fagaceae, come il castagno e le querce. È un albero molto grande che può raggiungere i 30-40 metri d'altezza. Ha tronco liscio di colore grigio, quasi metallico, foglie lucide e frutti, le faggiole, a sezione triangolare. Queste sono ricoperte da aculei sottili; a maturità si aprono in quattro sezioni e cadono, per germinare nella primavera successiva. Le noci, secondo alcuni autori (ad es. Polunin O. "Guida agli alberi ed arbusti d'Europa", Zanichelli Editore, 1977), sono commestibili e per esperienza diretta possiamo dire che una - due faggiole (una tantum) certamente non ci hanno causato problemi. La presenza, tra gli altri componenti, di saponine e tiaminasi, tuttavia, ci fa consigliare grande prudenza, perché un'assunzione importante può causare danni anche seri e questo soprattutto in caso di ingestione da parte dei bambini che hanno un organismo sicuramente più delicato. Le faggiole contengono un olio che è stato usato in passato per l'illuminazione ma anche per l'alimentazione del bestiame, in particolare polli e suini. Anche in questo caso accenniamo che in letteratura (vedasi ad es. Luzzi P. "Piante selvatiche velenose", Edagricole, 1995) sono segnalati casi di avvelenamento di suini a cui è stata somministrata una dieta ricchissima in faggiole, cosa che poteva avvenire specialmente nelle più povere regioni montane ove questo frutto è, periodicamente, molto abbondante. A cicli di 5-10 anni, infatti, la produzione di faggiole risulta particolarmente rilevante. Questi frutti sono molto appetiti dai cinghiali. Nella faggeta non è difficile rinvenire i segni che attestano il passaggio di questo ungulato selvatico, come le "arature", solchi lasciati sul terreno dagli animali alla ricerca del cibo, e gli escrementi. La plantula ha un aspetto inconfondibile per la caratteristica coppia di foglioline rotondeggianti presenti alla base, da cui si erge il giovane germoglio. Il faggio quando veste i colori autunnali raggiunge tonalità bronzee. In primavera, spicca sulle coste montane per il verde pallido del suo fogliame che, a maturità, assume toni intensi. I flessuosi rametti del faggio hanno colore marrone e reggono le gemme, che si presentano strette e appuntite.
Questa specie è presente in tutta la penisola italiana, ad eccezione della pianura padana. Nell'Italia insulare si rileva, invece, nella sola Sicilia. Nell'area appenninica in genere vegeta a quote comprese tra i 1.000 e i 1.700 s.l.m. Nelle Alpi la quota ottimale della faggeta è tra i 600 e i 1.300 m s.l.m. Esistono, tuttavia, delle eccezioni, ad esempio in Sicilia, dove troviamo delle faggete sopra i 2.000 m di quota (Monte Etna) o nel Lazio, dove, tra i 350 e i 550 metri, si rinvengono le così dette "faggete depresse relittuali". Il faggio è una specie oceanica, che ama i climi umidi e relativamente miti. Può vegetare su qualsiasi tipo di substrato litologico. Tende a formare boschi quasi puri e solo per particolari condizioni climatiche sfavorevoli convive con altre specie tra cui ricordiamo il cerro, il carpino nero gli aceri e i sorbi. Tra le conifere predilige l'abete bianco, anche se non mancano associazioni con pino nero, abete rosso, larice, ecc. Tipica nelle faggete è invece la presenza dell' agrifoglio, come abbiamo modo di constatare percorrendo il bellissimo sentiero che abbiamo denominato "degli agrifogli". Le ampie chiome che consentono solo un modesto passaggio di luce rende il sottobosco quasi inesistente, tuttavia dal letto di foglie morte a primavera spuntano tra le più belle fioriture di anemoni, epatiche, viole, primule e rare orchidee. Come accade spesso negli ambiti poco luminosi ed umidi, nella faggeta vegeta assai bene anche l'edera.

La ginestra (Spartium junceum L.), della famiglia delle Leguminosae. Si tratta di un arbusto perenne, privo di spine, alto fino a 3 m, con steli, cilindrici e leggermente carnosi, lisci e flessuosi. Presenta foglie piccole, di forma lanceolata, lunghe in genere non più di 3 cm, pelosette nella pagina inferiore. I fiori, decisamente profumati, sono bilabiati, ad ali distese, lunghi fino a 2,5 cm. Il frutto, detto baccello, è appiattito, di colore marrone a maturità, e contiene dai 10 ai 18 semi. La ginestra fiorisce da aprile ad agosto.

L'ippocastano (Aesculus hippocastanum L.), della Famiglia delle Hippocastanaceae, è un grande albero con foglie palmate, infiorescenze piramidali di fiori bianchi e frutti spinosi contenenti semi dalla buccia marrone, lucida, simili a castagne, non eduli, le così dette castagne d'India. Allo stato naturale, si trova solo nella Penisola Balcanica. In Italia, l'ippocastano è ampiamente coltivato, per ornamento ed ombreggiamento. Il legno, tenero, è usato per mobilio, lavori al tornio, ecc. I semi sono usati in Europa Orientale come alimento per il bestiame. Dalla corteccia s'estrae un colorante, usato per tingere di nero cotone e seta (in Umbria: specie introdotta).

Il leccio (Quercus ilex L.), della famiglia delle Fagaceae, è certamente la quercia sempreverde a più ampia diffusione nel nostro territorio e non soltanto negli ambiti interessati dai nostri itinerari. È presente nelle aree con climi mediterranei - montani e sopporta la siccità estiva. Le foglie adulte hanno la pagina inferiore coperta da peluria grigiastra, mentre quelle dei polloni sono spinose e simili alle foglie dell'agrifoglio. I frutti, le ghiande, presentano la cupoletta con squame appressate e peli grigi. La corteccia, per la sua ricchezza in tannini, è usata nella concia delle pelli e anche in tintoria. Il legname che se ne ricava, è molto resistente ed è pertanto idoneo per realizzare ruote, intarsi, ecc. È, inoltre, un buon combustibile ed è apprezzato anche per il carbone e la carbonella. Tra gli elementi che ci possono guidare al riconoscimento del leccio, ricordiamo le foglie sempreverdi, coriacee, che permangono sull'albero anche in inverno.

Il noce (Juglans regia L.), della famiglia delle Juglandaceae, è un albero dal portamento magnifico, che può raggiungere la considerevole altezza di 30 metri. Ha chioma larga e fitta e bel fogliame di colore verde chiaro. La corteggia, grigio-argentea, invecchiando si screpola. Le foglie sono composte da 7-9 foglioline oblungo-ovali, più o meno intere, glabre, d'intensa fragranza quando stropicciate. I fiori femminili sono riuniti in gruppetti di 2 o 3 elementi, posti in cima ai rami; i fiori maschili sono riuniti in spighe pendule, dette amenti. Il frutto è globoso, anche di 5 cm di diametro. È la famosa e prelibata noce, costituita da una parte esterna, il mallo, inizialmente verde, quindi nero a maturazione, che poi si decompone. La parte interna ha consistenza legnosa e racchiude il seme rugoso, il gheriglio, dal gusto prelibato, che tutti conosciamo. Il legno è di particolare pregio e qualità, con venature assai belle. È, inoltre, robusto e durevole; particolarmente apprezzato per molti lavori di falegnameria, per mobili, porte, ecc.
Un decotto di foglie essiccate, rapidamente, in luogo ombroso, asciutto e al riparo dalle correnti d'aria, raccolte da maggio a luglio e private della nervatura centrale, può essere digestivo, tonico ed anche ricostituente (1 grammo di foglie in un decilitro d'acqua). Un decotto ottenuto con 5 grammi di foglie, per la stessa quantità, già detta, d'acqua, può essere utile in caso di dermatiti, psoriasi e piccole ulcere della pelle. Ricordiamo, infine, che con il frutto acerbo si prepara il famoso "nocino", liquore digestivo. Ecco la ricetta: si toglie il mallo, verde, a 20-25 noci fresche e si pone a macerare per circa un mese in un litro di buona acquavite. Si aggiungono 2-3 chiodi di garofano ed un pezzetto di cannella. Trascorsi 30 gg, si filtra e si aggiunge uno sciroppo ottenuto con mezzo chilo di zucchero fatto bollire in 0,2 l di acqua fino a completo scioglimento dello zucchero. Lo sciroppo sarà unito all'acquavite filtrata dopo averlo fatto ben bene raffreddare. Il "nocino", così ottenuto, si conserva in bottiglia di vetro scuro e a chiusura ermetica. Se ne beve un bicchierino al bisogno, senza esagerare.

L'olivo (Olea europea L.), della famiglia delle Oleaceae, è una pianta sempreverde, con corteccia grigia che si screpola con gli anni. Ha foglie opposte, coriacee, di forma allungata, leggermente ondulate, caratteristicamente grigio verdi. I fiori dell'olivo sono piccoli, bianchi, riuniti in grappoletti. Il frutto è la conosciutissima drupa ovoidale, l'oliva, dapprima di colore verde, quindi nero - violaceo a maturazione, con nocciolo osseo, da cui s'estrae il preziosissimo olio. Il legno dell'olivo, duro e con belle venature scure, è usato per lavori di ebanisteria e falegnameria.
La coltura dell'olivo è stata introdotta nella nostra regione ad opera dei romani. Divenne economicamente importante a partire dal medioevo, sia a seguito della trasformazione del sistema feudale, sia, in particolare, per l'opera dei monaci.
Agli inizi dell'anno 1000, la coltivazione dell'ulivo avveniva all'interno delle cinte murarie o in ogni caso nei pressi dell'abitato, protetto da mura. Da questo caratteristico sistema di coltivazione, deriva il termine di "chiusa", ancora oggi utilizzato, in questa zona dell'Umbria, per designare una superficie olivata.
In "Olivicoltura e Danni da Gelo..." leggiamo che la fortuna dell'olivicoltura si ebbe a partire dal 1800, grazie all'intervento dello Stato Pontificio. Il governo papale, infatti, "decise di concedere premi in denaro a chiunque piantasse e curasse a regola d'arte le piante d'olivo". Per tale motivo, in un solo decennio, ne vennero messe a dimora circa 40.000, secondo sesti regolari. È evidente che questo sviluppo fu consentito dalla facilità con la quale allora si poteva trovare la manodopera. La coltivazione dell'olivo, nelle nostre zone, interessa versanti anche molto scoscesi. Il substrato prevalente, in quest'ambito territoriale, è quello del detrito di falda, caratterizzato da un suolo poco profondo e molto ricco di scheletro. L'ulivo è l'unica pianta agraria in grado di colonizzarlo con successo, anche per la gran resistenza all'aridità del periodo caldo. Caratteristica delle nostre colline è la coltivazione a terrazzo, con le piccole superfici coltivate protette da muretti a secco. Ha rappresentato e rappresenta una ricchezza di questi luoghi: ancora oggi, il prezzo di un uliveto deriva dal numero delle piante d'olivo - i piantoni in dialetto - piuttosto che dalla estensione del terreno olivato. La varietà d'olivo più diffusa nel territorio compreso tra Spoleto, Campello e Trevi è la cultivar "moraiolo", eccellente per la sua resistenza alla siccità, caratteristica che ne ha determinato l'ampia diffusione. Una curiosità: la pianta di olivo può vivere centinaia di anni.  Il tronco di olivo invecchiando tende a marcire nel proprio interno e in conseguenza, progressivamente, le parti esterne ancora vitali si dividono, si allontanano e ruotano in senso antiorario: l'insieme di tali accadimenti si completa nei primi 800 anni di vita della pianta (tratta da: "L'ulivo, albero della luce - Incontro con il Prof. Alessandro Menghini, docente ordinario di Botanica Farmaceutica Università degli Studi di Perugia, Museo della Civiltà dell'Ulivo, Trevi, 6 novembre 2004).

L'orniello (Fraxinus ornus L.), della famiglia delle Oleaceae, è un albero a chioma rotondeggiante, alto sino a 20 m circa, con corteccia cinerina, liscia. È particolarmente vistoso in primavera quando esplode la bianca fioritura di infiorescenze coniche, formate da fiori profumati a petali stretti. Le foglie, a 3-4 paia di foglioline irregolarmente e finemente dentate, compaiono contemporaneamente alle infiorescenze terminali. Il frutto è una samara di circa 2-2,5 cm per 3-4 mm, schiacciata lateralmente e generalmente smarginata all'apice. L'orniello produce un essudato (gomma zuccherina) chiamato manna che, particolarmente in alcune aree della Sicilia, viene raccolto e messo in commercio, in cannelli o in grani.

Il pino d'aleppo (Pinus halepensis Mill.), della famiglia delle Pinaceae, è una conifera con chioma a forma di piramide. Ha foglie aghiformi non molto lunghe, generalmente inferiori a cm 5, sottili, di colore verde chiaro, unite a due a due da una guaina. Questo elemento è comune ad altre conifere. Il fusto è spesso contorto, con corteccia di colore grigio chiaro e fenditure longitudinali, rossastre. I fiori femminili sono di colore giallo, i fiori maschili verde violaceo e compaiono tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate. I frutti sono coni appuntiti di colore bruno-rossastro, retti da peduncoli ricurvi verso il basso. I coni permangono sulla pianta molto a lungo, anche vari anni. In genere il pino d'Aleppo si rinviene sino alla quota di circa m 600 s.l.m. La pineta a pino d'Aleppo è tipica della zona fito-climatica del Lauretum. Questa conifera vegeta bene nelle zone aride; soffre laddove le piogge sono abbondanti, è dunque specie xerofila. È inoltre termofila, eliofila, e a rapido accrescimento. Quando è presente con un numero sufficiente di individui migliora considerevolmente il suolo. Nei confronti di questo è assai poco esigente, sia per quanto riguarda la fertilità, sia per lo spessore. Tra le caratteristiche che facilitano il riconoscimento del pino d'Aleppo, evidenziamo il già ricordato peduncolo che regge i coni; l'abbondante ramificazione secondaria, costituita da rametti sottili, grigio-chiari, flessuosi; il colore grigio chiaro della corteccia, fessurata verticalmente; gli aghi, chiari, corti, sottili, flessuosi, poco pungenti. Spezzandone un rametto possiamo avvertire un odore intenso. Tale caratteristica, comune ad altre conifere, è legata al fatto che il legno di questo pino è resinoso. Dalla resina si può ricavare trementina, acqua ragia, pece ed altri sottoprodotti.

Il pino nero (Pinus nigra Arn.), della famiglia delle Pinaceae, è una specie ad accrescimento abbastanza rapido. L'area di diffusione naturale del pino nero austriaco si estende dalla fascia superiore del Castanetum alla zona del Fagetum, con esclusione della sottozona fredda. Pinete naturali di pino nero, al di sotto del Piave e del Tagliamento, sono segnalate in Abruzzo e Calabria. Si presenta con chioma ovato-piramidale, tronco diritto, corteccia grigio-cenere scura che si "scaglia", cioè si fessura a placche sottili, rossastre all'interno. Le foglie, aghiformi, sono più lunghe di cm 5, generalmente maggiori di 8 cm e sono di colore verde intenso, scuro, e coriacee. I coni, vale a dire i frutti, sono di colore bruno chiaro lucente e praticamente sessili, cioè privi di picciolo. Può raggiungere altezze considerevoli, fino a 40 m. Tra i caratteri distintivi che ci consentono di riconoscerlo, citiamo i coni sessili; gli aghi, uniti a coppia, lunghi, verdi scuri, coriacei, pungenti; il colore grigio scuro della corteccia; la fessurazione a placche della stessa; la chioma slanciata. (In Umbria: specie introdotta).

Il pungitopo o rusco (Ruscus aculeatus L.), della famiglia delle Liliaceae, è la pianta natalizia per antonomasia. Le foglie, di colore verde intenso, permangono sull'arbusto, lucenti, anche in pieno inverno, rallegrate dalle bacche rosse (a maturità). Le foglie terminano con un mucrone pungente, assai apprezzato nell'antichità come antitopo. La tradizione, infatti, vuole che il rusco sia stato usato per proteggere dai roditori i salumi e i formaggi, nelle cantine. Da qui il nome di pungitopo. In primavera dagli arbusti del Ruscus aculeautus nascono tenerissimi germogli che si dicono squisiti e simili, nel sapore, all'asparago. Va da sé che i virgulti di rusco sono intoccabili, in quanto questa pianta è protetta. Ricordiamo che nel rizoma sono stati identificati sali di potassio e alcuni saponosidi, tra cui la ruscogenina (da cui deriva il nome generico). In erboristeria, il Ruscus trova indicazione come vasocostrittore ed anche diuretico. È altresì consigliato nei disturbi della microcircolazione periferica, nella gotta, nella menopausa ed anche come prevenzione delle possibili embolie postoperatorie.

La robinia o falsa acacia (Robinia pseudacacia L.) - in dialetto spina gaggia - della famiglia delle Leguminosae, è una pianta originaria dell'America centrale e settentrionale. Fu introdotta in Europa da tal Jean Robin nel 1600. Da giovane, la robinia è estremamente spinosa e può costituire fitte e "pericolose" boscaglie. Da adulta è un albero caratteristico per la corteccia profondamente solcata in senso longitudinale e per i rami contorti, con foglie di colore verde chiaro. Può raggiungere 25 m d'altezza. Le foglie sono pennate, costituite da foglioline in numero variabile tra 7 e 21, spesso con spina alla base. I fiori sono bianchi, riuniti in grappoli penduli. Il frutto è un legume di colore bruno, con semi duri. La sua ampia diffusione è legata alla forte adattabilità, che gli permette di vegetare bene su qualsiasi terreno. Per il suo apparato radicale è stata ed è utilizzata per rinsaldare terreni franosi. Il legno è molto resistente anche agli agenti atmosferici (in Umbria: specie introdotta).

La rosa canina (Rosa canina L.), della famiglia delle Rosaceae, è un arbusto cespuglioso che può raggiungere i 2 m d'altezza. Ha rami eretti inferiormente, ricadenti per la parte superiore, molto spinosi, analogamente al fusto. Le foglie sono composte, imparipennate, a 5-7 foglioline con margine seghettato, di colore verde scuro. Ha fiori profumati con corolle a 5 petali, rosa pallido, con sepali caduchi. Il frutto è ovoidale, liscio, rosso e morbido a maturazione, con semi pelosi. La polpa, acidula, è mineralizzante e vitaminizzante. La rosa canina è stata utilizzata sin dall'antichità in campo medico-erboristico; ad esempio, i Persiani la ritenevano in grado di combattere la tubercolosi. Anche se questa proprietà purtroppo non si è dimostrata fondata, è comunque vero che 100 grammi di polpa di rosa canina contengono, approssimativamente, la medesima quantità di vitamina C di un chilo di limoni. I semi setolosi, che tanto fastidio ci provocano quando inavver-titamente li ingoiamo, sono ritenuti in grado di scacciare i vermi intestinali, senza tuttavia irritare le mucose. Il decotto di polpa di rosa canina ha azione astringente, pertanto si rivela utile in caso di diarrea. L'infuso di petali di rosa essiccati (ne è sufficiente un cucchiaio raso in una tazza d'acqua bollente) è rinfrescante e blandamente lassativo. I cinorrodi, termine con cui correttamente indichiamo i frutti di rosa canina, possono essere utilizzati per aromatizzare la grappa. La ricetta è semplice. Estraiamo, da una manciata di "bacche" ben mature, la polpa, priva dei fastidiosi semini uncinati. La poniamo a macerare in un litro di acquavite, racchiudendo il tutto in un contenitore a chiusura ermetica. Lasciamo riposare tre settimane in una stanza calda, agitando di tanto in tanto. Passati 21 giorni, circa, filtriamo ed imbottigliamo. Attendiamo altri tre mesi, trascorsi i quali saremo pronti a gustare questa grappa, gustosa e leggermente lassativa.

La roverella (Quercus pubescens Willd.), della famiglia delle Fagaceae, è un albero caducifoglio (che perde cioè le foglie in autunno); ha corteccia grigio-scura, fessurata longitudinalmente. Può raggiungere l'altezza di 25 m; ha chioma larga ed irregolare. Le foglie sono alterne, con lobi simmetrici, talora dentate, pelose o meglio pubescenti nella pagina inferiore. Questa caratteristica è evidentissima nelle foglie giovani. La pagina superiore della foglia è liscia. Il frutto, la ghianda, ha una cupoletta a scagliette grigiastre, piccole e pelosette. Densamente pelosi sono anche i rametti. I fiori maschili, di colore verdastro, e quelli femminili, presenti in infiorescenze piccole e di pochi elementi fiorali, sono presenti sullo stesso individuo (specie monoica). Ricordiamo infine che la roverella è piuttosto sensibile alle gelate tardive, predilige i climi caldi, sopporta bene l'aridità estiva e si sviluppa meglio in condizioni di forte intensità luminosa. Il suo legname è molto apprezzato come legna da ardere per l'alto potere calorifico.
La diffusione della roverella nel nostro ambiente è legata sia alla sua estrema adattabilità, sia al suo frutto, le ghiande, in passato oggetto di raccolta per l'allevamento dei suini. Sappiamo, infatti, che l'Umbria, sin dall'epoca dei romani, è nota sia per le ghiande, sia per i maiali. Ricordiamo, come inciso, che il termine "norcino", che indica l'abitante di Norcia, è divenuto nel tempo sinonimo di artigiano addetto alla lavorazione e alla vendita (nella "norcineria") delle carni di maiale, nonché preparatore insuperabile d'insaccati.

Il rovo (Rubus ulmifolius Schott), della famiglia delle Rosaceae, è un arbusto che può raggiungere i 3 m d'altezza. Ha rami molto spinosi, con spine robuste a base larga. Le foglie sono palmate, composte da 3-5 elementi seghettati di colore verde scuro, bianco tomentose sulla pagina inferiore. Ha infiorescenza a pannocchia, pure spinosa, con le singole corolle composte da 5 petali, rosa o bianchi, con 5 sepali verdi ripiegati verso il basso. Il frutto, in realtà un falso frutto, è composto da minuscoli elementi, contenenti ciascuno un seme, che, dapprima verdi, divengono poi rossi ed infine neri a maturazione completata. Si tratta della così detta "mora" con cui si preparano squisite marmellate e che si utilizza come base per uno sciroppo astringente ed anche per curare mal di gola, abbassamento di voce e catarro bronchiale. Una ricetta per la cura degli effetti dei raffreddamenti invernali ci consiglia di ottenere dalle more il succo prima che siano completamente mature, di aggiungere pari peso di zucchero e quindi di far bollire dolcemente questo liquido zuccherino fino a fargli raggiungere una consistenza sciropposa. A questo punto si potrà conservare lo "sciroppo" così ottenuto in recipienti a chiusura ermetica, adottando tutte le precauzioni necessarie per la migliore e più corretta conservazione delle marmellate casalinghe.
Ricordiamo, infine, che il rovo fiorisce da maggio ad agosto, mentre da metà/fine agosto iniziano a maturare i gustosi frutti.

La sambuchella (Sambucus ebulus L.), appartiene alla famiglia delle Caprifoliaceae. Il nome potrebbe derivare da uno strumento musicale a fiato, in latino "sambuca". I fiori, raccolti in infiorescenze di colore bianco o appena rosato, presentano 5 stami sporgenti. Le parti verdi sono velenose. La drupa nera è drasticamente purgativa, attenzione dunque a non confonderlo con il sambuco arboreo che, come noto, è usato anche nella confezione di un liquore.

Il sambuco (Sambucus nigra L.), della famiglia delle Caprifoliaceae, è un arbusto o piccolo albero molto ramoso che produce bacche nere, in infruttescenze spesso penduli. Ha grandi infiorescenze bianco-crema di 10-20 cm di diametro. Le foglie, composte da 5-7 foglioline seghettate, se stropicciate emanano un forte odore. I fiori essiccati del sambuco sono sudoriferi, pertanto sono usati per combattere gli stati febbrili dei raffreddamenti. In questo caso si usa un infuso di due cucchiaini di fiori essiccati in una tazza d'acqua calda e se ne bevono tre tazze al giorno. La marmellata di sambucus nigra ha azione lassativa, ma attenzione: foglie e fiori freschi applicati direttamente sulla pelle hanno effetto irritante. Importante: attenti a non confondere il sambuco, edule, con la sambuchella, velenosa.

La sanguinella (Cornus sanguinea L.), della famiglia delle Cornaceae, è un arbusto, alto fino a 4 metri, che in inverno è molto vistoso per gli esili rami colore rosso scuro. La sanguinella, in autunno, si riconosce anche dalle foglie di colore rosso scuro, con nervature laterali ricurve, assai evidenti. I fiori, bianchi, sono riuniti in ombrelle. I frutti, neri, a grappoli, sono lucidi ed amari, non commestibili. Il legno molto duro è utilizzato per piccoli utensili agricoli, mentre i rami, flessibili, per lavori d'intreccio.

Il terebinto (Pistacia terebinthus L.), della famiglia delle Anacardiaceae, è un arbusto a fusto grigio, con foglie pennate, piuttosto coriacee, che cadono in autunno (caducifoglie). Caratteristici sono i frutti, riuniti in infruttescenze molto ramose, che da giovani sono di colore rosso-corallo e divengono marroncine a maturità. La pianta è resinosa. Fornisce una gomma che solidifica all'aria ed è usata in medicina. Una specie di trementina, detta di Chio o di Cipro, simile a quella che s'estrae dalle conifere. Il terebinto si distingue dal lentisco (Pistacia lentiscus L.), dello stesso genere, piuttosto simile come aspetto e vegetante pressappoco nelle stesse stazioni, perché ha le foglie di solito imparipennate (che terminano cioè con una fogliolina, che le rende dispari), caduche, con picciolo non alato e per le infiorescenze che nascono all'ascella delle stesse foglie. Le galle, che si possono formare sotto le foglie, sono usate per la produzione di sostanze coloranti e per la concia della pelle.

La vitalba (Clematis vitalba L.), della famiglia delle Ranunculaceae, è una pianta rampicante che si abbarbica alle siepi e agli alberi ed è caratterizzata da foglie composte e piccoli fiori bianco-verdastri. Le clematidi o vitalbe si notano in particolare dopo la fioritura estiva, quando i frutti (acheni) giungono a maturità e formano soffici ciuffetti piumosi dall'aspetto inconfondibile, di colore bianco argenteo, che possono permanere sino alla primavera seguente. Si può considerare una delle poche vere liane spontanee diffuse in Europa. Sono prensili i piccioli delle foglie composte, nonché quelli delle singole foglioline, che si arrotolano intorno ai sostegni. I vecchi fusti rampicanti possono avere il diametro di un braccio d'uomo, con corteccia solcata che si decortica in strisce. Come tutte le ranuncolacee, anche le Clematis sono tossiche.