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Corbezzolo |
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Robinia |
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Vitalba |
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L'acero
minore
(Acer monspessulanum L.), della famiglia delle Aceracee, è un albero
deciduo di piccole dimensioni, con foglie piccole, coriacee, trilobe. Ha
fiori giallo-verdastri, riuniti in infiorescenze appiattite alla
sommità, pendule a maturazione, che compaiono anche prima delle foglie.
I frutti, le samare, hanno ali circa parallele o anche sovrapposte ai
margini, di colorazione un poco rosata.
L'agrifoglio
(Ilex aquifolium L.), della famiglia delle Aquifoliaceae, è un arbusto
che può raggiungere l'altezza di 7-8 m. Ha corteccia liscia di colore
grigiastro e foglie alterne, coriacee, di colore verde scuro intenso.
Lucide sulla pagina superiore, hanno margine ondulato, talora spinoso. I
fiori si presentano assai poco appariscenti, di colore biancastro;
compaiono tra maggio e giugno. Il frutto è la drupa rossa che colora,
insieme con quella del pungitopo (Ruscus aculeatus), il bosco in
inverno ed allieta, nella tradizione, le ghirlande delle feste
natalizie. È una pianta sempreverde, bellissima, molto ricercata proprio
per le sue bacche rosse e per la tradizione di cui dicevamo. È
protetta, per cui ne è vietata la raccolta.
L'ailanto
(Ailanthus glandulosa Desf) è un alberello a rapido accrescimento della
famiglia delle Simaroubaceae, che comprende alberi ed arbusti per lo più
tropicali. L'ailanto, in particolare, è originario della Cina. I frutti
sono molto particolari: si presentano come ciuffi, ovviamente essi pure
penduli, ad ala ritorta, le così dette samare, che contengono un seme
schiacciato. Maturano a fine estate. La corteccia è simile a quella del
Faggio. L'ailanto sviluppa molti polloni, per questo tende a formare
boscaglie invadenti lungo le strade, nei luoghi incolti. E' utilizzato
per alberature in città, anche per la sua estrema resistenza agli
inquinanti atmosferici. È stato introdotto in Italia dalla Cina nella
seconda metà del XVIII secolo. Ebbe larga diffusione nel periodo delle
malattie del baco da seta, altrimenti detto filugello, per tentare di
salvare l'industria serica, allevando la sfinge dell'ailanto. Il
tentativo, tuttavia, non ebbe successo. Per finire, una ricetta per i
capelli grassi: il decotto di corteccia di ailanto. Prepariamo il decotto con 3
grammi di corteccia di rami giovani in 100 ml d'acqua. Con questo
preparato risciaquiamo i capelli dopo lo shampoo. Ricordiamo che la
corteccia si raccoglie in primavera o in autunno, incidendo delle
strisce con un coltello. Si essicca al sole, spezzettata, e si conserva
in sacchetti di carta o di tela (in Umbria: specie introdotta).
L'alloro
o lauro (Laurus nobilis
L.), della famiglia delle Lauraceae, di cui rappresenta la sola specie
naturalmente presente in Europa, è un arbusto o alberello sempreverde,
le cui foglie, quando stropicciate, sono molto aromatiche. È nativo
delle macchie sempreverdi, mediterranee. Spesso è coltivato, sia per
ornamento, sia per i suoi impieghi. Ha fogliame color verde scuro,
coriaceo, retto da un corto picciolo. Il frutto, una drupa lucida e
nera, grande più o meno come un'oliva, è in genere portata in coppia, al
termine di due brevi peduncoli. Il margine delle foglie è spesso
ondulato. Il legno di questa pianta è dolcemente aromatico ed è
utilizzato per intarsi. La corteccia, inizialmente verde, diviene a
maturità color cenere. Le foglie sono usate in cucina per aromatizzare.
Dall'alloro si estrae un olio, l'olio d'alloro, un tempo usato contro i
reumatismi, tuttora utilizzato in campo veterinario e talora anche in
profumeria. Alcune foglie d'alloro messe nei sacchetti della farina e
della pasta impediscono agli insetti di rovinare la nostra dispensa.
Venti grammi di bacche d'alloro, raccolte in autunno ed essiccate in
forno a bassa temperatura, lasciate a macerare per 5 giorni in olio
d'oliva, rappresentano un ottimo linimento in caso di reumatismi e
strappi muscolari. Per ottenerne i benefici è sufficiente massaggiare la
parte dolente con la tintura oleosa descritta. In caso di eccesso di
sudorazione dei piedi, può essere di qualche sollievo fare un pediluvio
con acqua calda in cui sono state messe delle belle foglie, grandi e
lucenti, d'alloro. Bisogna prestare grande attenzione a non confondere
le piante di lauro con quelle di
lauroceraso (Prunus laurocerasus L.) della famiglia delle
Rosaceae, velenoso. È una pianta utilizzata frequentemente per
bordare le recinzioni. In tale contesto possiamo trovare piuttosto
facilmente il lauroceraso lungo il percorso n. 1, in varie zone, anche
in prossimità dell'alloro qui segnalato. Questo arbusto ha foglie
grandi, sempreverdi, lucide e scure sulla pagina superiore, molto
pericolose per il loro contenuto in prulaurasina (glicoside) che
fermentando libera acido cianidrico, dal caratteristico odore di
mandorle amare. Ricordiamo che anche i frutti sono pericolosissimi,
tanto che 10 drupe di lauroceraso possono uccidere un bambino.
L'acido cianidrico è molto dannoso anche per gli animali, in quanto non
permette ai tessuti d'assorbire l'ossigeno del sangue. Il lauroceraso ha
corteccia grigio-bruna. Rami, piccioli e gemme sono di colore verde. Le
foglie, quando la pianta è adulta, possono raggiungere la ragguardevole
lunghezza di 15-20 cm circa. I frutti, a grappoli, sono neri e lucidi.
Sono costituiti da più drupe, in genere lunghe circa 1 cm cadauna, che
racchiudono un seme liscio e appuntito. Il lauroceraso ha infiorescenze
erette (portate in racemi alle ascelle delle foglie - lunghe al più come
le stesse foglie) che possono aiutarci a riconoscerlo dal lauro nobile.
Il bagolaro,
o albero dei rosari, in dialetto cirimpiccolo o fanfino, (Celtis
australis L.), della famiglia delle Ulmaceae (la stessa degli olmi, per
intenderci) è un albero caducifoglio che può raggiungere i 25 metri
d'altezza. Ha foglie ovato-lanceolate, fittamente e acutamente dentate,
che terminano caratteristicamente con una punta talora contorta. La
foglia è ruvida sulla pagina superiore, pelosetta su quella inferiore
che diviene glabra con l'età. Il tronco è liscio e i rami, flessibili,
sono coperti da fitta peluria. I fiori sono portati al termine di lunghi
peduncoli e compaiono contemporaneamente alle foglie. I frutti, verdi
inizialmente, divengono bruno scuri, quasi neri, a maturità. Sono retti
da un lungo peduncolo; sono commestibili, dolciastri e racchiudono un
nocciolo, punteggiato, molto duro. Il nome di albero dei rosari deriva
proprio dall'utilizzo dei noccioli, con i quali si facevano i rosari. I
rami, come detto flessibili, sono stati utilizzati come ma nici delle
fruste, il legno per realizzare utensili vari, come bastoni da
passeggio, ecc. Nella valle folignate - spoletina il bagolaro è
piuttosto comune in vicinanza dei casali, in passato, infatti, il
fogliame veniva utilizzato nel periodo estivo come foraggio.
Il
caprifoglio, appartiene al genere Lonicera, alla famiglia
delle Caprifoliaceae. Il genere Lonicera comprende circa 180 specie,
velenose, per la presenza della sostanza amara detta xylosteina e
di altre sostanze tossiche, di più recente scoperta, tra cui la
lonicerina, la siringina e varie saponine. Sono pericolose, in
particolare, le bacche, in genere nere ma in alcune specie anche rosse, globose, che attirano l'attenzione dei bambini. In letteratura si
conoscono casi d'avvelenamento, di piccoli, per ingestione dei frutti
del caprifoglio. Per descrivere brevemente il caprifoglio, possiamo
annotare che si tratta di un arbusto, con foglie opposte. In alcune
specie, tra cui il Lonicera etrusca, il Lonicera caprifolium,
il Lonicera periclymenum, le ultime due foglie di ciascun ramo
sono concresciute, a formare un'unica foglia, che risulta come
attraversata dal fusto fiorale. La corolla è molto caratteristica e si
può tranquillamente affermare che, vista una volta, è piuttosto facile
identificarla, anche se appartenente a specie diverse. In pratica ogni
corolla si presenta come un tubicino stretto e lungo, con lacinie
bilabiate e con stami che sporgono dal tubo della corolla. Numerose sono
le forme ornamentali, coltivate ad esempio per siepi.
Il castagno
(Castanea sativa Miller), della famiglia delle Fagaceae, è un albero
bello ed imponente che può raggiungere anche i 30 metri d'altezza.
Originario dell'Europa sud-orientale, è stato introdotto nei restanti
paesi europei probabilmente dai Romani. La chioma del castagno è
uniforme, retta da pochi rami robusti ed estesi. Le foglie sono strette
e lucide, seghettate e di colore verde scuro, con nervature laterali
vistose. Sono tra le più lunghe delle specie arboree, potendo
raggiungere anche 25 cm di lunghezza. Un elemento caratteristico, che
facilita il riconoscimento di questo albero, è la corteccia che presenta
profonde rigature a spirale ed anche la tarda comparsa dei fiori che
avviene a primavera avanzata, molto dopo la nascita delle foglie. Quando
il fiore femminile matura, producendo il frutto spinoso, il fiore
maschile avvizzisce. Ogni frutto contiene in genere due castagne dalla
buccia marrone scuro e dalla polpa farinosa e dolce. Il legno del
castagno, pur essendo forte e durevole, non è considerato di particolare
pregio. Spesso è ceduato per ottenere piccoli pali. Questi, specialmente
con un preventivo trattamento a base di bitume, sono usati per
palizzate, staccionate, e varie opere all'aperto. Il castagno è, come
suggerisce il nome stesso, una delle specie arboree tipiche della zona a
Castanetum, zona fito-climatica intermedia della classificazione del
Pavari (1916), che si estende a partire dai 550 sino agli 800 m s.l.m.
circa. La ridotta estensione del castagneto, nel nostro ambito comunale
occupa circa una decina di ettari, è dovuta alle particolari
caratteristiche del terreno (di tipo acido - subacido) e del microclima
locale che il castagno richiede per prosperare. I castagni sono in parte
coltivati per la produzione dei frutti, le castagne (castagneti da
frutto) o per la produzione di legno (castagneti cedui, d'alto fusto).
Le castagne di Manciano, un tempo, erano assai apprezzate e si vendevano
non solo nei mercati trevani ma anche in quelli spoletini.
Il ciliegio
selvatico (Prunus avium L.) della famiglia delle Rosaceae, ha
foglie ovato-ellittiche, rugose, lunghe anche 15 cm. Si presentano
appena pelose nella pagina inferiore, almeno nella fase giovanile, e
sono rette da un picciolo che può essere lungo anche il doppio delle
stesse foglie. Il ciliegio ha fiori bianchi e frutti rossi, le drupe
carnose ed invitanti che tutti conosciamo e che nelle piante selvatiche
difficilmente superano il centimetro di diametro. La corteccia di quest'albero
è bruno-rossastra, lucente e si spella orizzontalmente. Il legno del
ciliegio ha un colore caldo, ed è considerato di particolare pregio
nella stipetteria, nella lavorazione delle pipe e degli strumenti
musicali.
Il carpino
nero (Ostrya carpinfolia Scop.), della famiglia delle Corylaceae,
è un albero o arbusto che può raggiungere i 12 m d'altezza. Ha la
corteccia scura e foglie di forma ovale, acute, con margine seghettato,
di lunghezza, in genere, compresa tra 5 e 10 cm. Sono rette da brevi
piccioli. Nella fase giovanile le nervature delle foglie presentano una
pelosità evidente. Uno degli elementi che ci consente il riconoscimento
del carpino nero è il frutto, pendulo, che ci appare come un grappolo di
colore verde-giallastro chiaro, simile a quello del luppolo. Altra
caratteristica è la fine screpolatura della corteccia.
Il cerro
(Quercus cerris L.), della famiglia delle Fagaceae, è un grande albero a
foglie caduche, che può raggiungere l'altezza di 35 metri. Si riconosce
abbastanza facilmente dalle altre querce per la presenza di stipule
lunghe e strette che rileviamo sia alla base del picciolo, sia intorno
alle gemme. Le ghiande sono brevemente peduncolate e sono portate, sotto
le foglie dell'anno, dai rami dell'anno precedente. Caratteristiche sono
anche le cupole, fittamente ricoperte da squame sottili, morbide ed
acute. Le foglie sono inizialmente opache, quindi diventano lucide, con
superficie ruvida sulla pagina superiore e appena lanosa su quella
inferiore. I margini sono lobati, con lobi a punta, o con grandi denti.
Il legname del cerro non è di particolare pregio.
Il cipresso
comune (Cupressus sempervirens L.), della famiglia delle
Cupressaceae, ha forma snella, slanciata, quasi colonnare, di colore
scuro. È il cipresso tipico dei nostri cimiteri. I coni femminili ci
consentono un facile riconoscimento di questa pianta: si presentano
infatti come globuli con squame pentagonali, piatte. Boschi naturali di
cipressi si trovano allo stato attuale, per quanto ci consta, solo
nell'isola di Creta. Il cipresso comune ha legname durevole, fragrante,
molto ricercato nell'antichità.
Il cisto a
fiori rosa (Cistus incanus L.), detto anche rosola, della
famiglia delle Cistaceae, è un arbusto molto frequente lungo i sentieri
che abbiamo imparato a conoscere con questa guida. Si presenta molto
ramificato, con altezza variabile, anche fino a 1,5 metri. Le foglie del
cisto a fiori rosa sono ellittiche-ovate, ricoperte da peluria e appena
ondulate ai margini. I fiori, che riempiono fittamente il cespuglio di
cisto, sono rosa, con diametro della corolla anche di 6 centimetri e con
5 petali, quasi impalpabili, delicatissimi. Gli elementi che ci
consentono il riconoscimento di questa specie sono il colore dei petali,
le foglie picciolate (il Cistus albidus L., relativamente simile
nell'aspetto esteriore, le presenta, ad esempio, sessili) ed il fiore,
con stimma mai sessile, a stilo allungato all'incirca come gli stami. Il
cisto a fiori rosa è un arbusto tipico delle macchie e dei prati aridi,
calcarei.
Il corbezzolo
(Arbutus unedo L.) è detto in dialetto cerasa marina, della
famiglia delle Ericaceae. È l'arbusto sempreverde che rosseggia nei
boschi in autunno con i suoi frutti carnosi. Ha i fiori tipici delle
ericacee, a forma di anforetta, di colore crema o bianco. Ha foglie
coriacee, con margine seghettato, pagina superiore verde scuro e pagina
inferiore di colore più chiaro. Caratteristica del corbezzolo è di
"portare" contemporaneamente fiori e frutti (rossi alla maturazione e
rugosi o meglio verrucosi). Questi sono eduli, tuttavia per taluni poco
gustosi, tanto che il nome specifico (unedo) sta ad indicare
"uno solo", nel senso che è più che sufficiente mangiarne un solo
frutto. In ogni caso è bene non eccedere nelle scorpacciate di
"cerase marine", perché potrebbero risultare poco digeribili.
Il corniolo
(Cornus mas L.), grugnale in dialetto, della famiglia delle
Cornaceae, fiorisce tra la fine di febbraio ed i primi di marzo, quando
è ancora senza le foglie che compaiono dopo la fioritura. I piccoli
boccioli e i minuscoli fiori stellati sono di colore giallo oro. Il
corniolo ha foglie opposte, con nervature evidenti. Il frutto è una
drupa, oblunga, commestibile, di sapore acidulo, rosso scuro a
maturazione, con cui si preparano deliziose marmellate. Il legno del
corniolo è duro e compatto. Un proverbio che raccontano i nostri vecchi,
ne descrive le qualità in questi termini "il legno del grugnale rompe
l'ossa e non fa male".
Le eriche,
della famiglia delle Ericaceae, sono arbusti con fiori campanulati, a
forma d'anforetta, riuniti in infiorescenze, e foglie aghiformi.
Della pianta d'erica, si utilizza il ciocco che è impiegato per la
fabbricazione dei camini delle pipe. L'estrazione del ciocco si ripete,
di norma, ogni 40 - 50 anni sulla medesima pianta e consente di
ottenerne anche 30 quintali per ettaro di bosco. Le ramificazioni
dell'erica scoparia sono utilizzate per fare le scope. Il legno d'erica
per la sua compattezza ed omogeneità, quando raggiunge dimensioni
sufficienti, è usato per piccoli lavori d'ebanisteria, specie al tornio.
Il
ginepro
comune (Juniperus communis L.) ha aghi a punta, appiattiti, con
una banda grigia centrale. Le bacche di ginepro comune, a maturazione,
sono di colore nero-blu ed hanno un caratteristico aroma,
apprezzatissimo in cucina. Proponiamo due ricette erboristiche: 1) il
vino di ginepro; 2) la frizione alcolica al ginepro.
1) Prendiamo 15 grammi di bacche schiacciate e la scorza gialla di un
limone. Mettiamo a macerare il tutto in un litro di vino bianco e secco,
ad alta gradazione. Lasciamo riposare il composto per 15 giorni. Quindi
filtriamo e riponiamo in bottiglia. Due bicchierini al giorno di vino di
ginepro si rivelano eccellenti in caso d'inappetenza e reumatismi. In
generale, il vino di ginepro è tonico, digestivo e diuretico.
Importante: i preparati, i vini, i liquori, le grappe a base di
ginepro non devono essere assunti per più di 5-6 gg. consecutivi. Dosi
elevate di bacche di ginepro possono provocare irritazione all'apparato
urinario e renale. I preparati a base di ginepro non vanno somministrati
alle donne in gravidanza.
2) Prendiamo 50 grammi di bacche di ginepro schiacciate e 10 grammi di
foglie di rosmarino. Mettiamo a macerare in un bicchiere d'alcool
denaturato. Lasciamo riposare il composto per circa 15 giorni. Quindi
filtriamo e misceliamo con 25 grammi d'olio di ricino. Il composto
alcolico può essere utilizzato per frizionare parti dolenti in caso di
dolori reumatici. La parte frizionata andrà quindi tenuta bene in caldo,
ad esempio con una pezza di lana.
Il
ginepro
spinoso o ginepro rosso (Juniperus oxycedrus L.) è in genere
tendenzialmente più grande del comune. Presenta aghi appiattiti con due
bande grigie. Le bacche, a maturazione, sono di colore rosso-mattone.
I ginepri appartengono alla famiglia delle Cupressaceae. Sono arbusti
tipici dei terreni calcarei.
Il
faggio
(Fagus sylvatica L.) appartiene alla famiglia delle Fagaceae, come il
castagno e le querce. È un albero molto grande che può raggiungere i
30-40 metri d'altezza. Ha tronco liscio di colore grigio, quasi
metallico, foglie lucide e frutti, le faggiole,
a sezione triangolare. Queste sono ricoperte da aculei sottili; a
maturità si aprono in quattro sezioni e cadono, per germinare nella
primavera successiva. Le noci, secondo alcuni autori (ad es. Polunin O.
"Guida agli alberi ed arbusti d'Europa", Zanichelli Editore, 1977), sono commestibili e per
esperienza diretta possiamo dire che una - due faggiole (una tantum)
certamente non ci hanno causato problemi. La presenza, tra gli altri
componenti, di saponine e tiaminasi, tuttavia, ci fa consigliare grande prudenza, perché
un'assunzione importante può causare danni anche seri e
questo soprattutto in caso di ingestione da parte dei bambini che hanno
un organismo sicuramente più delicato. Le faggiole contengono un olio che è stato usato in passato
per l'illuminazione ma anche per l'alimentazione del bestiame, in
particolare polli e suini. Anche in questo caso accenniamo che in
letteratura (vedasi ad es. Luzzi P. "Piante selvatiche velenose",
Edagricole, 1995) sono segnalati casi di avvelenamento di suini a cui è
stata somministrata una dieta ricchissima in faggiole, cosa che poteva
avvenire specialmente nelle più povere regioni montane ove questo frutto
è, periodicamente, molto abbondante. A cicli di
5-10 anni, infatti, la produzione di faggiole risulta particolarmente
rilevante. Questi frutti sono molto appetiti dai cinghiali. Nella
faggeta non è difficile rinvenire i segni che attestano il passaggio di
questo ungulato selvatico, come le "arature", solchi lasciati sul
terreno dagli animali alla ricerca del cibo, e gli escrementi. La plantula ha un aspetto inconfondibile per la
caratteristica coppia di foglioline rotondeggianti presenti alla base,
da cui si erge il giovane germoglio. Il faggio quando veste i colori
autunnali raggiunge tonalità bronzee. In primavera, spicca sulle coste
montane per il verde pallido del suo fogliame che, a maturità, assume
toni intensi. I flessuosi rametti del faggio hanno colore marrone e
reggono le gemme, che si presentano strette e appuntite.
Questa specie è presente in tutta la penisola italiana, ad eccezione
della pianura padana. Nell'Italia insulare si rileva, invece, nella sola
Sicilia. Nell'area appenninica in genere vegeta a quote comprese tra i
1.000 e i 1.700 s.l.m. Nelle Alpi la quota ottimale della faggeta è tra
i 600 e i 1.300 m s.l.m. Esistono, tuttavia, delle eccezioni, ad esempio
in Sicilia, dove troviamo delle faggete sopra i 2.000 m di quota (Monte
Etna) o nel Lazio, dove, tra i 350 e i 550 metri, si rinvengono le così
dette "faggete depresse relittuali". Il faggio è una specie oceanica,
che ama i climi umidi e relativamente miti. Può vegetare su qualsiasi
tipo di substrato litologico. Tende a formare boschi quasi puri e solo
per particolari condizioni climatiche sfavorevoli convive con altre
specie tra cui ricordiamo il cerro, il carpino nero gli aceri e i sorbi.
Tra le conifere predilige l'abete bianco, anche se non mancano
associazioni con pino nero, abete rosso, larice, ecc. Tipica nelle
faggete è invece la presenza dell'
agrifoglio, come abbiamo modo di
constatare percorrendo il bellissimo sentiero che abbiamo denominato
"degli agrifogli". Le ampie chiome che consentono solo un modesto
passaggio di luce rende il sottobosco quasi inesistente, tuttavia dal
letto di foglie morte a primavera spuntano tra le più belle fioriture di
anemoni, epatiche, viole, primule e rare orchidee. Come accade spesso
negli ambiti poco luminosi ed umidi, nella faggeta vegeta assai bene
anche l'edera.
La ginestra (Spartium junceum L.), della famiglia delle Leguminosae. Si tratta di un
arbusto perenne, privo di spine, alto fino a 3 m, con steli, cilindrici
e leggermente carnosi, lisci e flessuosi. Presenta foglie piccole, di
forma lanceolata, lunghe in genere non più di 3 cm, pelosette nella
pagina inferiore. I fiori, decisamente profumati, sono bilabiati, ad ali
distese, lunghi fino a 2,5 cm. Il frutto, detto baccello, è appiattito,
di colore marrone a maturità, e contiene dai 10 ai 18 semi. La ginestra
fiorisce da aprile ad agosto.
L'ippocastano
(Aesculus hippocastanum L.), della Famiglia delle Hippocastanaceae, è un
grande albero con foglie palmate, infiorescenze piramidali di fiori
bianchi e frutti spinosi contenenti semi dalla buccia marrone, lucida,
simili a castagne, non eduli, le così dette castagne d'India. Allo stato
naturale, si trova solo nella Penisola Balcanica. In Italia,
l'ippocastano è ampiamente
coltivato, per ornamento ed ombreggiamento. Il legno, tenero, è usato
per mobilio, lavori al tornio, ecc. I semi sono usati in Europa
Orientale come alimento per il bestiame. Dalla corteccia s'estrae un
colorante, usato per tingere di nero cotone e seta (in Umbria: specie
introdotta).
Il leccio
(Quercus ilex L.), della famiglia delle Fagaceae, è certamente la
quercia sempreverde a più ampia diffusione nel nostro territorio e non
soltanto negli ambiti interessati dai nostri itinerari. È presente nelle
aree con climi mediterranei - montani e sopporta la siccità estiva. Le
foglie adulte hanno la pagina inferiore coperta da peluria grigiastra,
mentre quelle dei polloni sono spinose e simili alle foglie
dell'agrifoglio. I frutti, le
ghiande, presentano la cupoletta con
squame appressate e peli grigi. La corteccia, per la sua ricchezza in
tannini, è usata nella concia delle pelli e anche in tintoria. Il
legname che se ne ricava, è molto resistente ed è pertanto idoneo per
realizzare ruote, intarsi, ecc. È, inoltre, un buon combustibile ed è
apprezzato anche per il carbone e la carbonella. Tra gli elementi che ci
possono guidare al riconoscimento del leccio, ricordiamo le
foglie
sempreverdi, coriacee, che permangono sull'albero anche in inverno.
Il noce
(Juglans regia L.), della famiglia delle Juglandaceae, è un albero dal
portamento magnifico, che può raggiungere la considerevole altezza di 30
metri. Ha chioma larga e fitta e bel fogliame di colore verde chiaro. La
corteggia, grigio-argentea, invecchiando si screpola. Le foglie sono
composte da 7-9 foglioline oblungo-ovali, più o meno intere, glabre,
d'intensa fragranza quando stropicciate. I fiori femminili sono riuniti
in gruppetti di 2 o 3 elementi, posti in cima ai rami; i fiori maschili
sono riuniti in spighe pendule, dette amenti. Il frutto è globoso, anche
di 5 cm di diametro. È la famosa e prelibata noce, costituita da una
parte esterna, il mallo, inizialmente verde, quindi nero a maturazione,
che poi si decompone. La parte interna ha consistenza legnosa e
racchiude il seme rugoso, il gheriglio, dal gusto prelibato, che tutti
conosciamo. Il legno è di particolare pregio e qualità, con venature
assai belle. È, inoltre, robusto e durevole; particolarmente apprezzato
per molti lavori di falegnameria, per mobili, porte, ecc.
Un decotto di foglie essiccate, rapidamente, in luogo ombroso, asciutto
e al riparo dalle correnti d'aria, raccolte da maggio a luglio e private
della nervatura centrale, può essere digestivo, tonico ed anche
ricostituente (1 grammo di foglie in un decilitro d'acqua). Un decotto
ottenuto con 5 grammi di foglie, per la stessa quantità, già detta,
d'acqua, può essere utile in caso di dermatiti, psoriasi e piccole
ulcere della pelle. Ricordiamo, infine, che con il frutto acerbo si
prepara il famoso "nocino", liquore digestivo. Ecco la ricetta:
si toglie il mallo, verde, a 20-25 noci fresche e si pone a macerare per
circa un mese in un litro di buona acquavite. Si aggiungono 2-3 chiodi
di garofano ed un pezzetto di cannella. Trascorsi 30 gg, si filtra e si
aggiunge uno sciroppo ottenuto con mezzo chilo di zucchero fatto bollire
in 0,2 l di acqua fino a completo scioglimento dello zucchero. Lo
sciroppo sarà unito all'acquavite filtrata dopo averlo fatto ben bene
raffreddare. Il "nocino", così ottenuto, si conserva in bottiglia
di vetro scuro e a chiusura ermetica. Se ne beve un bicchierino al
bisogno, senza esagerare.
L'olivo
(Olea europea L.), della famiglia delle Oleaceae, è una pianta
sempreverde, con corteccia grigia che si screpola con gli anni. Ha
foglie opposte, coriacee, di forma allungata, leggermente ondulate,
caratteristicamente grigio verdi. I fiori dell'olivo sono piccoli,
bianchi, riuniti in grappoletti. Il frutto è la conosciutissima drupa
ovoidale, l'oliva, dapprima di colore verde, quindi nero - violaceo a
maturazione, con nocciolo osseo, da cui s'estrae il preziosissimo olio.
Il legno dell'olivo, duro e con belle venature scure, è usato per lavori
di ebanisteria e falegnameria.
La coltura dell'olivo è
stata introdotta nella nostra regione ad opera dei romani. Divenne
economicamente importante a partire dal medioevo, sia a seguito della
trasformazione del sistema feudale, sia, in particolare, per l'opera dei
monaci.
Agli inizi dell'anno 1000, la coltivazione dell'ulivo avveniva
all'interno delle cinte murarie o in ogni caso nei pressi dell'abitato,
protetto da mura. Da questo caratteristico sistema di coltivazione,
deriva il termine di "chiusa", ancora oggi utilizzato, in questa zona
dell'Umbria, per designare una superficie olivata.
In "Olivicoltura e Danni da Gelo..." leggiamo che la fortuna
dell'olivicoltura si ebbe a partire dal 1800, grazie all'intervento
dello Stato Pontificio. Il governo papale, infatti, "decise di concedere
premi in denaro a chiunque piantasse e curasse a regola d'arte le
piante d'olivo". Per tale motivo, in un solo decennio, ne vennero messe
a dimora circa 40.000, secondo sesti regolari. È evidente che questo
sviluppo fu consentito dalla facilità con la quale allora si poteva
trovare la manodopera. La coltivazione dell'olivo, nelle nostre zone,
interessa versanti anche molto scoscesi. Il substrato prevalente, in
quest'ambito territoriale, è quello del detrito di falda, caratterizzato
da un suolo poco profondo e molto ricco di scheletro. L'ulivo è l'unica
pianta agraria in grado di colonizzarlo con successo, anche per la gran
resistenza all'aridità del periodo caldo. Caratteristica delle nostre
colline è la coltivazione a terrazzo, con le piccole superfici coltivate
protette da muretti a secco. Ha rappresentato e rappresenta una
ricchezza di questi luoghi: ancora oggi, il prezzo di un uliveto deriva
dal numero delle piante d'olivo - i piantoni in dialetto -
piuttosto che dalla estensione del terreno olivato. La varietà d'olivo
più diffusa nel territorio compreso tra Spoleto, Campello e Trevi è la
cultivar "moraiolo", eccellente per la sua resistenza alla
siccità, caratteristica che ne ha determinato l'ampia diffusione. Una
curiosità: la pianta di olivo può vivere centinaia di anni. Il
tronco di olivo invecchiando tende a marcire nel proprio interno e in
conseguenza, progressivamente, le parti esterne ancora vitali si
dividono, si allontanano e ruotano in senso antiorario: l'insieme di
tali accadimenti si completa nei primi 800 anni di vita della pianta
(tratta da: "L'ulivo, albero della luce - Incontro con il Prof.
Alessandro Menghini, docente ordinario di Botanica Farmaceutica
Università degli Studi di Perugia, Museo della Civiltà dell'Ulivo, Trevi,
6 novembre 2004).
L'orniello
(Fraxinus ornus L.), della famiglia delle Oleaceae, è un albero a chioma
rotondeggiante, alto sino a 20 m circa, con corteccia cinerina, liscia.
È particolarmente vistoso in primavera quando esplode la bianca
fioritura di infiorescenze coniche, formate da fiori profumati a petali
stretti. Le foglie, a 3-4 paia di foglioline irregolarmente e finemente
dentate, compaiono contemporaneamente alle infiorescenze terminali. Il
frutto è una samara di circa 2-2,5 cm per 3-4 mm, schiacciata
lateralmente e generalmente smarginata all'apice. L'orniello produce un
essudato (gomma zuccherina) chiamato manna che, particolarmente
in alcune aree della Sicilia, viene raccolto e messo in commercio, in
cannelli o in grani.
Il pino d'aleppo
(Pinus halepensis Mill.), della famiglia delle Pinaceae, è una conifera
con chioma a forma di piramide. Ha foglie aghiformi non molto lunghe,
generalmente inferiori a cm 5, sottili, di colore verde chiaro, unite a
due a due da una guaina. Questo elemento è comune ad altre conifere. Il
fusto è spesso contorto, con corteccia di colore grigio chiaro e
fenditure longitudinali, rossastre. I fiori femminili sono di colore
giallo, i fiori maschili verde violaceo e compaiono tra la fine della
primavera e l'inizio dell'estate. I frutti sono coni appuntiti di colore
bruno-rossastro, retti da peduncoli ricurvi verso il basso. I coni
permangono sulla pianta molto a lungo, anche vari anni. In genere il
pino d'Aleppo si rinviene sino alla quota di circa m 600 s.l.m. La
pineta a pino d'Aleppo è tipica della zona fito-climatica del Lauretum.
Questa conifera vegeta bene nelle zone aride; soffre laddove le piogge
sono abbondanti, è dunque specie xerofila. È inoltre termofila, eliofila,
e a rapido accrescimento. Quando è presente con un numero sufficiente di
individui migliora considerevolmente il suolo. Nei confronti di questo è
assai poco esigente, sia per quanto riguarda la fertilità, sia per lo
spessore. Tra le caratteristiche che facilitano il riconoscimento del
pino d'Aleppo, evidenziamo il già ricordato peduncolo che regge i coni;
l'abbondante ramificazione secondaria, costituita da rametti sottili,
grigio-chiari, flessuosi; il colore grigio chiaro della corteccia,
fessurata verticalmente; gli aghi, chiari, corti, sottili, flessuosi,
poco pungenti. Spezzandone un rametto possiamo avvertire un odore
intenso. Tale caratteristica, comune ad altre conifere, è legata al
fatto che il legno di questo pino è resinoso. Dalla resina si può
ricavare trementina, acqua ragia, pece ed altri sottoprodotti.
Il pino nero
(Pinus nigra Arn.), della famiglia delle Pinaceae, è una specie ad
accrescimento abbastanza rapido. L'area di diffusione naturale del pino
nero austriaco si estende dalla fascia superiore del Castanetum alla
zona del Fagetum, con esclusione della sottozona fredda. Pinete naturali
di pino nero, al di sotto del Piave e del Tagliamento, sono segnalate in
Abruzzo e Calabria. Si presenta con chioma ovato-piramidale, tronco
diritto, corteccia grigio-cenere scura che si "scaglia", cioè si fessura
a placche sottili, rossastre all'interno. Le foglie, aghiformi, sono più
lunghe di cm 5, generalmente maggiori di 8 cm e sono di colore verde
intenso, scuro, e coriacee. I coni, vale a dire i frutti, sono di colore
bruno chiaro lucente e praticamente sessili, cioè privi di picciolo. Può
raggiungere altezze considerevoli, fino a 40 m. Tra i caratteri
distintivi che ci consentono di riconoscerlo, citiamo i coni sessili;
gli aghi, uniti a coppia, lunghi, verdi scuri, coriacei, pungenti; il
colore grigio scuro della corteccia; la fessurazione a placche della
stessa; la chioma slanciata. (In Umbria: specie introdotta).
Il pungitopo
o rusco (Ruscus aculeatus L.), della famiglia delle Liliaceae, è la
pianta natalizia per antonomasia. Le foglie, di colore verde intenso,
permangono sull'arbusto, lucenti, anche in pieno inverno, rallegrate
dalle bacche rosse (a maturità). Le foglie terminano con un mucrone
pungente, assai apprezzato nell'antichità come antitopo. La tradizione,
infatti, vuole che il rusco sia stato usato per proteggere dai roditori
i salumi e i formaggi, nelle cantine. Da qui il nome di pungitopo. In
primavera dagli arbusti del Ruscus aculeautus nascono tenerissimi
germogli che si dicono squisiti e simili, nel sapore, all'asparago. Va
da sé che i virgulti di rusco sono intoccabili, in quanto questa pianta
è protetta. Ricordiamo che nel rizoma sono
stati identificati sali di potassio e alcuni saponosidi, tra cui la
ruscogenina (da cui deriva il nome generico). In erboristeria, il
Ruscus trova indicazione come vasocostrittore ed anche diuretico. È
altresì consigliato nei disturbi della microcircolazione periferica,
nella gotta, nella menopausa ed anche come prevenzione delle possibili
embolie postoperatorie.
La robinia
o falsa acacia (Robinia
pseudacacia L.) - in dialetto spina gaggia - della famiglia delle
Leguminosae, è una pianta originaria dell'America centrale e
settentrionale. Fu introdotta in Europa da tal Jean Robin nel 1600. Da
giovane, la robinia è estremamente spinosa e può costituire fitte e "pericolose"
boscaglie. Da adulta è un albero caratteristico per la corteccia
profondamente solcata in senso longitudinale e per i rami contorti, con
foglie di colore verde chiaro. Può raggiungere 25 m d'altezza. Le foglie
sono pennate, costituite da foglioline in numero variabile tra 7 e 21,
spesso con spina alla base. I fiori sono bianchi, riuniti in grappoli
penduli. Il frutto è un legume di colore bruno, con semi duri. La sua
ampia diffusione è legata alla forte adattabilità, che gli permette di
vegetare bene su qualsiasi terreno. Per il suo apparato radicale è stata
ed è utilizzata per rinsaldare terreni franosi. Il legno è molto
resistente anche agli agenti atmosferici (in Umbria: specie introdotta).
La rosa
canina (Rosa canina L.), della famiglia delle Rosaceae, è un
arbusto cespuglioso che può raggiungere i 2 m d'altezza. Ha rami eretti
inferiormente, ricadenti per la parte superiore, molto spinosi,
analogamente al fusto. Le foglie sono composte, imparipennate, a 5-7
foglioline con margine seghettato, di colore verde scuro. Ha fiori
profumati con corolle a 5 petali, rosa pallido, con sepali caduchi. Il
frutto è ovoidale, liscio, rosso e morbido a maturazione, con semi
pelosi. La polpa, acidula, è mineralizzante e vitaminizzante. La rosa
canina è stata utilizzata sin dall'antichità in campo medico-erboristico;
ad esempio, i Persiani la ritenevano in grado di combattere la
tubercolosi. Anche se questa proprietà purtroppo non si è dimostrata
fondata, è comunque vero che 100 grammi di polpa di rosa canina
contengono, approssimativamente, la medesima quantità di vitamina C di
un chilo di limoni. I semi setolosi, che tanto fastidio ci provocano
quando inavver-titamente li ingoiamo, sono ritenuti in grado di
scacciare i vermi intestinali, senza tuttavia irritare le mucose. Il
decotto di polpa di rosa canina ha azione astringente, pertanto si
rivela utile in caso di diarrea. L'infuso di petali di rosa essiccati
(ne è sufficiente un cucchiaio raso in una tazza d'acqua bollente) è
rinfrescante e blandamente lassativo. I cinorrodi, termine con
cui correttamente indichiamo i frutti di rosa canina, possono essere
utilizzati per aromatizzare la grappa. La ricetta è semplice. Estraiamo,
da una manciata di "bacche" ben mature, la polpa, priva dei fastidiosi
semini uncinati. La poniamo a macerare in un litro di acquavite,
racchiudendo il tutto in un contenitore a chiusura ermetica. Lasciamo
riposare tre settimane in una stanza calda, agitando di tanto in tanto.
Passati 21 giorni, circa, filtriamo ed imbottigliamo. Attendiamo altri
tre mesi, trascorsi i quali saremo pronti a gustare questa grappa,
gustosa e leggermente lassativa.
La roverella
(Quercus pubescens Willd.), della famiglia delle Fagaceae, è un albero
caducifoglio (che perde cioè le foglie in autunno); ha corteccia
grigio-scura, fessurata longitudinalmente. Può raggiungere l'altezza di
25 m; ha chioma larga ed irregolare. Le foglie sono alterne, con lobi
simmetrici, talora dentate, pelose o meglio pubescenti nella pagina
inferiore. Questa caratteristica è evidentissima nelle foglie giovani.
La pagina superiore della foglia è liscia. Il frutto, la ghianda, ha una
cupoletta a scagliette grigiastre, piccole e pelosette. Densamente
pelosi sono anche i rametti. I fiori maschili, di colore verdastro, e
quelli femminili, presenti in infiorescenze piccole e di pochi elementi
fiorali, sono presenti sullo stesso individuo (specie monoica).
Ricordiamo infine che la roverella è piuttosto sensibile alle gelate
tardive, predilige i climi caldi, sopporta bene l'aridità estiva e si
sviluppa meglio in condizioni di forte intensità luminosa. Il suo
legname è molto apprezzato come legna da ardere per l'alto potere
calorifico.
La diffusione della roverella nel nostro ambiente è legata sia alla sua
estrema adattabilità, sia al suo frutto, le ghiande, in passato oggetto
di raccolta per l'allevamento dei suini. Sappiamo, infatti, che
l'Umbria, sin dall'epoca dei romani, è nota sia per le ghiande, sia per
i maiali. Ricordiamo, come inciso, che il termine "norcino", che
indica l'abitante di Norcia, è divenuto nel tempo sinonimo di artigiano
addetto alla lavorazione e alla vendita (nella "norcineria")
delle carni di maiale, nonché preparatore insuperabile d'insaccati.
Il rovo
(Rubus ulmifolius Schott), della famiglia delle Rosaceae, è un arbusto
che può raggiungere i 3 m d'altezza. Ha rami molto spinosi, con spine
robuste a base larga. Le foglie sono palmate, composte da 3-5 elementi
seghettati di colore verde scuro, bianco tomentose sulla pagina
inferiore. Ha infiorescenza a pannocchia, pure spinosa, con le singole
corolle composte da 5 petali, rosa o bianchi, con 5 sepali verdi
ripiegati verso il basso. Il frutto, in realtà un falso frutto, è
composto da minuscoli elementi, contenenti ciascuno un seme, che,
dapprima verdi, divengono poi rossi ed infine neri a maturazione
completata. Si tratta della così detta "mora" con cui si
preparano squisite marmellate e che si utilizza come base per uno
sciroppo astringente ed anche per curare mal di gola, abbassamento di
voce e catarro bronchiale. Una ricetta per la cura degli effetti dei
raffreddamenti invernali ci consiglia di ottenere dalle more il succo
prima che siano completamente mature, di aggiungere pari peso di
zucchero e quindi di far bollire dolcemente questo liquido zuccherino
fino a fargli raggiungere una consistenza sciropposa. A questo punto si
potrà conservare lo "sciroppo" così ottenuto in recipienti a chiusura
ermetica, adottando tutte le precauzioni necessarie per la migliore e
più corretta conservazione delle marmellate casalinghe.
Ricordiamo, infine, che il rovo fiorisce da maggio ad agosto, mentre da
metà/fine agosto iniziano a maturare i gustosi frutti.
La
sambuchella (Sambucus ebulus L.), appartiene alla famiglia delle
Caprifoliaceae. Il nome potrebbe derivare da uno strumento musicale a
fiato, in latino "sambuca". I fiori, raccolti in infiorescenze di
colore bianco o appena rosato, presentano 5 stami sporgenti. Le parti
verdi sono velenose. La drupa nera è drasticamente purgativa,
attenzione dunque a non confonderlo con il sambuco arboreo che, come
noto, è usato anche nella confezione di un liquore.
Il
sambuco
(Sambucus nigra L.), della famiglia delle Caprifoliaceae, è un arbusto o
piccolo albero molto ramoso che produce bacche nere, in infruttescenze
spesso penduli. Ha grandi infiorescenze bianco-crema di 10-20 cm di
diametro. Le foglie, composte da 5-7 foglioline seghettate, se
stropicciate emanano un forte odore. I fiori essiccati del sambuco sono sudoriferi,
pertanto sono usati per combattere gli stati febbrili dei
raffreddamenti. In questo caso si usa un infuso di due cucchiaini di
fiori essiccati in una tazza d'acqua calda e se ne bevono tre tazze al
giorno. La marmellata di sambucus nigra ha azione lassativa, ma
attenzione: foglie e fiori freschi applicati direttamente sulla pelle
hanno effetto irritante. Importante: attenti a non confondere il
sambuco, edule, con la sambuchella, velenosa.
La
sanguinella (Cornus sanguinea L.), della famiglia delle Cornaceae,
è un arbusto, alto fino a 4 metri, che in inverno è molto vistoso per
gli esili rami colore rosso scuro. La sanguinella, in autunno, si
riconosce anche dalle foglie di colore rosso scuro, con nervature laterali ricurve, assai evidenti. I fiori, bianchi, sono
riuniti in ombrelle. I frutti, neri, a grappoli, sono lucidi ed amari,
non commestibili. Il legno molto duro è utilizzato per piccoli
utensili agricoli, mentre i rami, flessibili, per lavori d'intreccio.
Il terebinto
(Pistacia terebinthus L.), della famiglia delle Anacardiaceae, è un
arbusto a fusto grigio, con foglie pennate, piuttosto coriacee, che
cadono in autunno (caducifoglie). Caratteristici sono i frutti, riuniti
in infruttescenze molto ramose, che da giovani sono di colore
rosso-corallo e divengono marroncine a maturità. La pianta è resinosa.
Fornisce una gomma che solidifica all'aria ed è usata in medicina. Una
specie di trementina, detta di Chio o di Cipro, simile a quella che
s'estrae dalle conifere. Il terebinto si distingue dal
lentisco (Pistacia
lentiscus L.), dello stesso genere, piuttosto simile come aspetto e
vegetante pressappoco nelle stesse stazioni, perché ha le foglie di
solito imparipennate (che terminano cioè con una fogliolina, che le
rende dispari), caduche, con picciolo non alato e per le infiorescenze
che nascono all'ascella delle stesse foglie. Le galle, che si
possono formare sotto le foglie, sono usate per la produzione di
sostanze coloranti e per la concia della pelle.
La vitalba
(Clematis vitalba L.), della famiglia delle Ranunculaceae, è una pianta
rampicante che si abbarbica alle siepi e agli alberi ed è caratterizzata
da foglie composte e piccoli fiori bianco-verdastri. Le clematidi o
vitalbe si notano in particolare dopo la fioritura estiva, quando i
frutti (acheni) giungono a maturità e formano soffici ciuffetti piumosi
dall'aspetto inconfondibile, di colore bianco argenteo, che possono
permanere sino alla primavera seguente. Si può considerare una delle
poche vere liane spontanee diffuse in Europa. Sono prensili i piccioli
delle foglie composte, nonché quelli delle singole foglioline, che si
arrotolano intorno ai sostegni. I vecchi fusti rampicanti possono avere
il diametro di un braccio d'uomo, con corteccia solcata che si decortica
in strisce. Come tutte le ranuncolacee, anche le Clematis sono
tossiche.
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