Nome botanico della specie: Pinus pinea L.
Nome popolare con cui l’albero è conosciuto localmente: lu pinnócchiu de lu cantante
Circonferenza tronco: 3,2 m
Altezza pianta: 25,0-26,0 m (stimata)
Ampiezza chioma: 15,0 m
Età: non definita – fu piantato in un terreno facente parte della proprietà conosciuta come villa del Vescovo, la cui antica dimora risale al XVIII secolo
Stato di salute (a vista): buono
Codice piante elenco regionale: 10
Altitudine (m s.l.m.): 315
Rilevatore/autore della scheda: Alfiero D’Agata, Giampaolo Filippucci, Tiziana Ravagli
Il pino vegeta in via Martiri della Resistenza (poco a monte dell’Istituto comprensivo ‘G. Parini’), in località Scigliano, a poche centinaia di metri dalla piazza principale del capoluogo municipale. Lu pinnócchiu de lu cantante si trova su uno dei punti più alti e meglio visibili del territorio comunale, così che gettando lo sguardo in direzione di Castel Ritaldi è l’elemento caratterizzante di questo paesaggio. Lo possiamo raggiungere da La Bruna seguendo il percorso letterario La Bruna-Castel Ritaldi.
Una nota di Alfiero D’Agata: lo splendido pino svetta solitario sopra la collina di Castel Ritaldi, mentre lo corredano a terra quercioli spontanei e altri alberi di pino di recente impianto (non più di quindici anni) e, a ridosso del grande albero, due cespugliosi biancospini. A cinque metri da terra, sul suo tronco, due alberetti germogliano rigogliosi da circa dieci anni [il rilevamento è del febbraio 2011], nella cavità che spontaneamente si è formata in conseguenza dello schianto di un grande ramo, avvenuto qualche decennio fa: sono un Pinus pinea, di 70 cm, generato da un pinolo della stessa pianta madre, e un ciliegio, che ha raggiunto un metro di altezza, nato dal frutto depositato da un qualche uccello. Emblema arboreo di Castel Ritaldi, lo si scorge da qualunque direzione si provenga. Altissimo, con la caratteristica chioma ad ombrello, si erge maestoso e solitario sulla collinetta antistante la dimora dell’antico famoso ‘Cantante’ (il basso Gianfrancesco Angelini Rota) e di fronte a quella che fu la villa del Vescovo, costruita sul poggio dalla Curia vescovile di Spoleto: per chi procede sulla strada principale, oggi, è a poche decine di metri dagli edifici scolastici comunali. La verde chioma emerge in primavera sopra la bianca distesa dei ciliegi in fiore che rivestono l’intera costa meridionale della collina. Meno rigoglioso e possente degli altri due pini e del cipresso piantati insieme ad ornamento del luogo, per questa ragione scampò all’abbattimento nell’ottobre del 1951, sorte che per motivi venali era toccata ai due pini più grandi e al cipresso, e a due secolari cipressi, i quali, sulla strada che sale al paese quasi ne segnavano l’ingresso, all’altezza della villa del Vescovo. Unico sopravvissuto dunque alla sorte toccata agli altri grandi alberi collocati nello stesso luogo, forse perché risultava allora di dimensioni che facevano configurare uno scarso guadagno dall’abbattimento e depezzamento, come parrebbe alludere la testimonianza di Mario Tabarrini che raccontò la triste vicenda in un inserto (‘Addio Cipressi’) del quotidiano romano Il Messaggero, novembre 1951, e la riportò, più tardi, anche sul suo A Castel Ritaldi, tra Storia, Arte e Poesia (1986, pp. 114, 115).
Scrive il Tabarrini: «[…] Poche notti appresso toccò ad altri colossali pini e ad un cipresso, che erano sulla balza di fronte. Anch’essi si vedevano da lontano, come nelle cartoline illustrate sulla cima rotonda del colle, con il loro ombrellone composito, circolare, dal cui centro sbucava la punta scura del cipresso. Un angolo di pace, di erba perenne, dove i bambini, d’estate, ruzzavano e si divertivano a raccogliere pinoli, e le nonne sferruzzavano. Un angolo tranquillo, di tutti, come il povero giardino di un povero paese, che non ha altro. Restò, attonito testimone, il più sprovveduto pino, che su su, alla vetta di un orgoglioso tronco, mostra una frusta chioma. Così terminò una leggendaria favola di irripetibile poesia».
E ancora: «Per la storia voglio ricordare alcuni alberi, che erano lì e che furono abbattuti. Qui, proprio dove la strada, finita la salita, si apre finalmente larga e pianeggiante, si slanciavano due vecchi cipressi altissimi: uno di qua uno di là della strada. Quanti anni avessero, nessuno lo sapeva. Forse cinquecento, forse mille anni» [‘Addio Cipressi’, Il Messaggero, novembre 1951].